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Lo sguardo sulle cose, V.M. Garsin, A.P. Cechov
Corrimano Edizioni
98 pagine, 10.00 euro
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Il mestiere dell'editore rimane, agli occhi del lettore inesperto, sempre un po' obliato: il fruitore del prodotto letterario ignora che il libro che tiene in mano è l'esito, in ogni sua parte, di scelte precise che vanno dalla qualità della carta al font del testo.
L'atto poietico, che è quello proprio dell'editore, diventa invece più lampante quando abbiamo davanti un'antologia breve come Lo sguardo sulle cose: l'ordinarietà della creazione editoriale travalica i confini della mera scelta della copertina e si fissa oltre, nell'esperienza molto più emozionante della composizione a mosaico, in cui i singoli tasselli – i racconti – danno vita a un'opera composita e del tutto nuova.
Il titolo deve poi costituire il fil rouge dell'antologia. Quando i testi sono diversi, motivare la cernita e condensarla in un titolo significativo risulta complicato.
Corrimano edizioni si è dunque arrischiata in questa impresa, e l'emozione che io posso immaginare non deve essere stata inferiore alla sua.
Sarà bene partire proprio dal titolo, che fa riferimento alla prospettiva – lo “sguardo” – che Garšin e Čechov hanno sugli eventi del mondo esteriore e interiore, una rappresentazione personale che diventa universale – caratteristica di tutta la letteratura russa, forse la migliore interprete del sentire umano.
Notizie preliminari sono necessarie soltanto sul primo autore: Vsevolod Michajlovič Garšin non è molto noto in Italia, pur essendo stato apprezzato da Tolstoj e da Turgenev e pur essendo stato paragonato a Čechov. La sua vita fu profondamente segnata dall'arruolamento nella guerra russo-turca, che ha lasciato un segno indelebile nella sua produzione – circa venti storie –, e dall'instabilità psicologica. Entrambe le tematiche sono presenti nei racconti propinati: Dai ricordi del soldato Ivanov e Il fiore rosso, la sua opera più matura – quella laddove, fatte le dovute differenze, potremmo individuare affinità tematiche con Čechov.
Nella narrazione di Garšin colpisce, oltre alla maestosa asciuttezza della prosa che è tipica di molti russi, la riflessione sulla condizione umana, in quei rari momenti in cui l'autore abbandona la descrizione pedissequa dei fatti.
Era una mattina nuvolosa e fredda, piovigginava; gli alberi del cimitero si intravedevano nella nebbia; le cime delle tombe sbucavano oltre i cancelli e le mura bagnate. Marciammo lungo il margine del cimitero, lasciandolo alla nostra destra. E mi sembrò che ci guardasse perplesso attraverso la nebbia. “Perché ve ne andate in migliaia a morire a migliaia di verste in campi stranieri, quando si può morire anche qui, morire tranquilli, stesi sotto le mie croci di legno e le lapidi di pietra? Restate!”Non restammo. Ci trascinava una forza invisibile e senza nome, la vita umana non conosce forza più potente. Ciascuno di noi avrebbe preferito andare a casa, ma la massa proseguiva, obbedendo non a un ideale di disciplina, non alla consapevolezza di una causa giusta, non a un sentimento di odio per un nemico sconosciuto, ma a quella forza invisibile e istintiva che ancora a lungo condurrà l'umanità verso la guerra, ragione prima di ogni tragedia, di ogni dolore umano.
Moltissimi aspetti della vita militare vengono sviscerati: la fatica delle marce e delle giornate negli accampamenti, la rigidità del clima, le relazioni con i compagni, la violenza e la morte. Il dilemma sulla ferocia dei superiori verso i subalterni non si scioglie con la giustificazione della frustrazione personale o dovuta alle particolari condizioni dei soldati: un uomo colto, descritto persino “di buon cuore”, può picchiare selvaggiamente un soldato per una lievissima mancanza. Non è dato sapere per quale motivo, e se sia la guerra ad abbrutire o l'animo umano a permanere in quello stato di malvagia soddisfazione che emerge solo quando può esercitare il potere.
Ma queste domande alla fine non contano: la morte incombe sui soldati, “carne da cannone”. È qui che spicca la contraddizione della condizione cameratesca, la consapevolezza della propria trascurabilità di soldati e l'importanza della fedeltà al posto e soprattutto allo zar:
E lui sapeva che eravamo pronti alla morte. Vide quelle file di uomini dalla spaventosa risolutezza passargli innanzi quasi correndo, uomini del suo povero Paese, poveramente vestiti, rozzi soldati. Sentiva che tutti loro andavano incontro alla morte, calmi e senza che ne fossero responsabili. Sedeva, lui, in sella a un cavallo grigio e immobile, le cui orecchie erano tese alla musica e alle frenetiche urla di entusiasmo.
La guerra è un male inevitabile, “ragione prima di ogni tragedia, di ogni dolore umano” e, davanti al dramma della morte del nemico, anche l'orgoglio e il patriottismo trovano un posto marginale, perdendo di importanza.
Dai ricordi del soldato Ivanov è il racconto più lungo e grave della raccolta. Risultano più snelli gli altri due, Il fiore rosso e Una crisi nervosa, accomunati da una venatura di follia. Se nel primo caso Garšin descrive la lotta immaginaria di un malato mentale, che si crede eroe delle sorti del mondo, contro tre papaveri “malvagi” – responsabili del sangue versato degli innocenti e per questo di colore rosso –, nel secondo la follia di Čechov è molto più sottile e meno irreversibile.
La sensibilità del protagonista, Vasil'ev, lo spinge a prendere a cuore la problematica della prostituzione, a lui palesatasi dopo un giro in alcuni bordelli assieme agli amici totalmente indifferenti. Ricorre il dilemma, di sveviana memoria, sulla sanità e la malattia – quest'ultima spesso ricorrente in Čechov: le crisi nervose – tanto frequenti in Dostoevskij – appaiono inspiegabili per gli amici “sani” di Vasil'ev, che non percepiscono la portata della tragedia femminile – né questa è nota alle stesse prostitute:
“C'è il vizio”, pensò, “senza la consapevolezza della colpa, né la speranza della salvezza. Vengono vendute, comprate, affogano nel vino e nell'abominio, e loro, manco fossero pecore, ottuse e indifferenti, non capiscono. Dio mio, Dio mio!”
Ci risparmieremo una riflessione, squisitamente personale, riguardo l'oggetto della sollecitudine di Vasil'ev: non solo la sofferenza e il dolore morale delle “donne perdute” – che d'altronde sembrano vivere tra gli agi –, ma anche e – forse soprattutto – la vergogna del vizio.
La prostituzione viene vista nell'ottica dell'ordine naturale delle cose e tutti i possibili rimedi escogitati da Vasil'ev risultano inattuabili. Gli amici e persino il dottore non comprendono la disperazione del protagonista, che tocca temi profondi:
“La vostra medicina dice che ognuna di queste donne muore prematuramente di tubercolosi o di altro; le arti ci dicono che moralmente muore anche prima. Ognuna di loro muore perché nel corso della vita intrattiene, in media, cinquecento persone. La uccidono in cinquecento. E fra questi cinquecento ci siete anche voi! Ora, frequentando, voi due, questo e altri luoghi simili duecentocinquanta volte nel corso della vita, alla fine avrete ucciso una donna ogni due. È evidente, no? È orribile, no? In due, in tre, in cinque uccidere una stupida donna affamata! Ma non è orribile, Dio mio?”
La crisi nervosa di Vasil'ev si esaurisce in breve tempo, ed egli torna “lucido”. Svaniti i vapori della follia, il rumore delle carrozze smette di irritarlo e il cuore si fa più leggero. È tornato alla normalità, all'accettazione stoica, guarito dalla stessa scienza che, inerme e incarnata nella figura del dottore, guarda freddamente il caso clinico di Vasil'ev senza badare al caso umano.
La preferenza della sottoscritta va al racconto di Čechov, anche se un plauso va fatto all'abilità propria di Garšin di tratteggiare, con lingua pura e immediata, le situazioni più delicate e le illusioni più dolorose. D'altro canto lo sguardo acuto di Čechov e la capacità di ribaltare le convinzioni della società, anticipando i temi del Novecento, nonché la limpidezza quasi innocente con cui queste problematiche vengono esposte, mi spingono a prediligerlo.
Il volume complessivo è, per concludere, degno di nota: la traduzione è ottima, la fattura complessiva del libro cartaceo ben curata, e ha il pregio non indifferente di diffondere l'opera di un autore come Garšin, ancora quasi sconosciuto nel nostro paese. Gli amanti della letteratura russa non potranno certo farselo sfuggire.
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