lunedì 12 dicembre 2016
Intervista a Majgull Axelsson, autrice di "Io non mi chiamo Miriam"
Il 15 novembre abbiamo partecipato a Milano ad un incontro speciale con la scrittrice svedese Majgull Axelsson, autrice di Io non mi chiamo Miriam. L'evento si è svolto nella sede di Iperborea, in via Palestro: un gruppo di blogger intorno a un tavolo, librerie alle pareti e un'atmosfera calda e stimolante. Tra curiosità e domande via via più interessanti, l'autrice ci ha mostrato aspetti e risvolti sconosciuti del suo libro e del modo di essere narratrice: scopriamo che ha iniziato la carriera come giornalista e lo è stata per circa venticinque anni. Solo dopo la stesura di Rosario is dead, un romanzo-documentario crudele e disincantato sulla prostituzione infantile, ha deciso di diventare scrittrice e raccontare storie, arrivando con Strega d'aprile a vincere un prestigioso premio letterario in Svezia. Parlando con lei sembra quasi di avere davanti uno storico o un esperto dei campi di sterminio nazisti: sa ogni cosa e risponde esaurientemente a tutto, mantenendo sempre un rapporto strettissimo con ricostruzioni precise e cronache il più possibile dettagliate. Stupiscono soprattutto il suo spirito critico e il modo serio e obiettivo con cui si è avvicinata al popolo rom, libera da ogni pregiudizio e spinta da una forte volontà di documentare il lettore e spazzare via ogni preconcetto. In particolare ha varcato quel sottile ponte che collega il giornalista allo scrittore, informandoci a dovere su quanto accaduto ad Auschwitz e al contempo regalandoci pagine di sensazioni forti e realistiche. Majgull Axelsson è riuscita in questo modo a unire il reportage e la cronaca di un evento storico alla letteratura intimista e personale: il lettore vede e sente tramite uno sguardo strano, che potremmo definire oggettivo/emotivo. In definitiva la Miriam che ha in mente l'autrice è la stessa che avevamo compreso dalle pagine del romanzo: una donna perfetta e discreta che non mostra mai rabbia o irritazione. Questo è il prezzo che deve pagare per conservare la sua bella vita e nascondere la propria etnia.
È sempre affascinante penetrare lo spazio creativo e capire da dove vengano quelle intuizioni speciali che si trasformano in libri. Anche Io non mi chiamo Miriam nasce, come spesso accade, da un incontro fortuito con un'ispirazione improvvisa. Ci può raccontare com'è andata realmente e svelare il rapporto che scorre tra verità e romanzo?
Pensavo semplicemente di scrivere un libro sui tumulti che si erano svolti a Jönköping nel 1948. Gli abitanti della città manifestavano contro un gruppo di stagnini rom che vivevano nel ghetto e che si erano mescolati agli svedesi: i toni diventarono presto piuttosto violenti e volgari e numerose persone vennero quasi poste sotto assedio per settimane. Nel 2011/2012 sono andata a visitare il quartiere in cui erano avvenute le dimostrazioni. Mi trovavo vicino ad una bella casa con a fianco una chiesa e subito ho immaginato Miriam: sola, spaventata, di ritorno dal lager dove era quasi morta. Di colpo sapevo anche cosa le era accaduto durante i tumulti. Solo in seguito sono andata ad Auschwitz per documentarmi: per esempio in un negozio di Birkenau molto fornito ho trovato alcuni volumi veramente completi. Non sapremo mai quanti siano stati i rom morti nei lager, purtroppo non erano registrati: potrebbero essere cinquecentomila come un milione, provenienti soprattutto da Polonia, Ungheria e Germania.
Come sono stati trattati i rom e gli altri profughi accolti in Svezia alla fine della guerra? Questo è sicuramente un tema molto attuale, visto l'incredibile afflusso di immigrati in Europa.
Sicuramente meglio di come vengono trattati oggi. Erano alloggiati nelle scuole e nelle sale dei concerti, la gente del luogo donava loro cibo, soprattutto panini e frutta, vestiti caldi, piumoni. Facevano a gara ad ospitarli. Folke Bernadotte, politico e membro della famiglia reale (era nipote del re Gustavo V di Svezia), riuscì a negoziare con Himmler la liberazione dei prigionieri politici. La Croce Rossa svedese doveva portare in salvo solo nordici, svedesi e norvegesi, alla fine salvò anche persone di altre etnie. Cercarono di fare del loro meglio.
Nel suo libro i rom vengono spesso chiamati “tattare”. Da dove deriva questo termine?
I tattare in Germania sono i sinti. Questa parola è stata coniata durante i conflitti russo-svedesi dei secoli XVII/XVIII. Al ritorno dal fronte i soldati avevano portato in patria mogli e figli appartenenti ad altre etnie: per questo non erano più accettati dalle comunità di cui un tempo facevano parte. Combattendo coi russi erano venuti a contatto con il nome “tartari”, una minoranza presente in Russia. Anche se non avevano niente a che vedere con questo popolo vennero chiamati “tattare”, ovvero la deformazione della parola “tartari”, il modo in cui gli svedesi la pronunciavano.
L'aggettivo “tartaro” in russo è “tatarskij”. Questo termine ricorre spesso per esempio in molte opere di Tolstoj. Non ci stupiamo quindi troppo della trasformazione svedese in “tattare”. Gli stessi tartari sono detti anche tatari.
Com'è oggi la situazione dei rom in Svezia?
Attualmente esistono delle vere e proprie organizzazioni che si occupano di difendere queste minoranze. Gli abitanti di Jönköping si vergognano tuttora moltissimo dei tumulti del 1948. La loro è una città da sempre fortemente religiosa, con il più alto numero di chiese della Svezia. Di recente gruppi di neonazisti avevano deciso di darsi appuntamento proprio lì per le dimostrazioni del primo maggio. Non appena si sparse la voce, le campane della città iniziarono a suonare per dare l'allarme e i cittadini scesero in piazza. Alla fine i neonazisti risultarono pochissimi, circa una ventina, mentre le persone tantissime: si svolse quindi una serena e consapevole commemorazione dei fatti del '48. Nel romanzo la famiglia regala a Miriam un braccialetto di fattura zingara che è poi in un certo senso la scintilla che spinge la protagonista a rivelare la sua vera identità: nelle mie intenzioni era un oggetto creato da Rosa Taikon, nota artigiana di origini rom che si è sempre battuta per i diritti del suo popolo.
Le vicissitudini della protagonista sembrano reali e veramente vissute. Non c'è quasi differenza tra Io non mi chiamo Miriam e il romanzo di un reduce. Come ha fatto a rendere così bene a livello emotivo e in modo così realistico esperienze che non ha vissuto?
Il segreto è leggere leggere leggere. Io in particolare leggo moltissimo da quando avevo dodici anni e conosco bene sia Remarque che Primo Levi, i due scrittori che mi hanno aiutato di più nella stesura di questo libro. Sicuramente questo romanzo ha preteso molto da me: ho sognato per circa due anni il lager, in un certo senso ero diventata proprio Miriam. Tra l'altro lei vive nella città dove sono nata! Scrivevo principalmente di notte e ho avuto incubi terribili per circa due anni. Prima di addormentarmi ogni sera dicevo a mio marito: “È ora di tornare al campo!”. Vi lascio immaginare il sollievo quando finalmente l'ho finito.
Potremmo aggiungere una riflessione alla risposta di Majgull Axelsson. È probabilmente anche merito del suo passato da giornalista se il personaggio di Miriam è così finemente costruito e verosimile: vive letteralmente delle miriadi di informazioni che l'autrice ha scoperto leggendo o semplicemente camminando nei teatri dell'Olocausto. Per ogni inchiesta o articolo sono infatti fondamentali un lavoro di ricerca preciso e una buona capacità di investigazione. Due qualità che sicuramente alla Axelsson non mancano.
martedì 29 novembre 2016
Recensione: Ultime lettere da Montmartre di Qiu Miaojin
Ultime lettere da Montmartre, Qiu Miaojin
Calabuig
176 pagine, € 14.00
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Al di là della Cina è difficile reperire opere di Qiu Miaojin, anche in lingua inglese. Per quanto riguarda l'Italia, invece, la casa editrice Jaca Book, nella collana Calabuig, ha recentemente pubblicato Ultime lettere da Montmartre, che come suggerisce il titolo è il suo ultimo libro. È quest'opera che oggi ci accingeremo a recensire; ma non sarà un compito semplice, e non solo per la sua frammentarietà. Purtroppo bisogna guardare in faccia la realtà e riconoscere che, a meno di non essere studiosi di letteratura cinese, un lettore italiano non possiede gli strumenti necessari per capire questo libro.
La lettura di Ultime lettere da Montmartre è estremamente difficoltosa e poco lineare. In primis per la varietà degli stili usati dall’autrice, come l'epistolario, il memoir, la poesia, alternati seguendo solo l’istinto e la creatività. La narrazione, se così possiamo chiamarla, si concentra su un periodo particolarmente difficile per la Miaojin, tra delusioni amorose e turbinii emozionali difficili da decifrare, anche per lei stessa. Facile quindi immaginare lo spaesamento del lettore italiano che, ricordiamolo, la incontra per la prima volta in assoluto in queste pagine.
A questi problemi strutturali - che però, a ben guardare, conferiscono anche fascino all’opera, e rendono l’idea del talento dell’autrice - si aggiunge l’edizione, che non fornisce nessun aiuto al lettore. A parte il testo, infatti, non ci sono contenuti aggiuntivi. Non esistono né prefazione né postfazione, la biografia dell’autrice si limita a una manciata di righe. Le uniche informazioni disponibili si trovano sul sito di Calabuig (perlopiù articoli e recensioni); rimane comunque il fatto che l’edizione cartacea è priva di materiali critici. Un dettaglio non di poco conto per un editore che ha l’ambizioso obiettivo di portare in Italia un’autrice sconosciuta. La traduzione del libro - fluida, e supportata ottimamente dall'editing - è firmata da una professoressa universitaria di Lingua e letteratura cinese, Silvia Pozzi; si sarebbero potute usare le sue competenze anche per presentare l'opera al lettore. Purtroppo così non è stato. Anche la scelta editoriale di presentare un'opera autobiografica al mercato italiano rende perplessi: forse avrebbe reso meglio il romanzo Notes of a Crocodile, l’unico ad essere stato anche tradotto in inglese.
Spiace firmare una recensione estremamente vaga, senza neanche un voto finale per aiutare chi legge a valutare l’acquisto, tuttavia Ultime lettere da Montmartre, così com’è nella sua edizione italiana, è difficile da comprendere appieno. Spiace anche essere duri con una casa editrice che ha nella sua mission l’ecletticità e l’ambiziosità: doti sempre positive, sopratutto in un mercato asfittico come quello nostrano, ma che devono essere supportate anche dal pragmatismo. Pubblicare un’opera epistolare senza un degno apparato critico, e quindi senza dare al lettore gli strumenti necessari per goderla, è una scelta non priva di conseguenze. Speriamo, tuttavia, che la storia di Qiu Miaojin in Italia prosegua, perché è una scrittrice che merita più notorietà.
Recensione: Buck e il terremoto, a cura di Serena Bianca De Matteis
Buck e il terremoto, Serena Bianca De Matteis (a cura di)
Self-publishing (CreateSpace Indipendent Publisher)
116 pagine, 2,99€ ebook - 8,50€ cartaceo
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Da un’idea di Serena Bianca De
Matteis, il 26 agosto 2016 nasce Buck e il terremoto, un progetto sviluppato
da un collettivo di autori provenienti dalle più svariate parti d’Italia: diciotto racconti collegati dalle tematiche del terremoto e del rapporto tra uomo e natura.
Gli autori hanno avuto la
possibilità di osservare entrambe le facce della natura: quella benigna,
tratteggiata dalla relazione tra umani e animali che offrono loro fiducia e
soccorso; ma anche quella meno cortese, che riversa tutta la sua potenza nella
distruzione di case e nello spezzamento di vite, nonostante l’ideatrice della raccolta
abbia sottolineato che il progetto era votato alla redazione di testi che
dovevano trasmettere il messaggio della speranza. Sebbene alcuni racconti
mostrino contenuti crudi e mettano in scena difficoltà che lasciano avvertire tutta
la loro gravità, in effetti si riesce a trovare quella speranza e quella forza
di continuare a lottare contro le avversità.
I racconti non sono molto lunghi,
la lettura è scorrevole e la prosa gradevole tanto che, potremmo dire, si
riescono a divorare in poco tempo. È una lettura leggera che con la sua
semplicità riesce a far riflettere su temi importanti e a emozionare. Anche
alla luce dell’obiettivo che il collettivo si è posto, l’importanza che riveste
questo lavoro balza subito all’attenzione dei lettori. Gli autori e lo staff
che ha curato l’edizione del libro sono l’emblematica dimostrazione di come
anche la scrittura, generalmente ritenuta un’attività solitaria e - in qualche
modo - alienante rispetto al resto del mondo, possa invece risultare una forza ulteriore
messa a servizio della collettività bisognosa di aiuto. La somma ricavata dalla
vendita di questa antologia – pubblicata sia in formato cartaceo che
elettronico – sarà devoluta interamente alla Croce Rossa Italiana a sostegno
delle vittime del terremoto che ha colpito il Centro Italia nel 2016.
La bellezza del messaggio
solidale che gli autori vogliono inviare non si manifesta solo nelle
intenzioni, ma anche nel corso dei racconti dove protagonisti, umani o animali,
cercano di aiutarsi vicendevolmente, incuranti della diversità di specie che li
separa. Ce lo insegna persino Sonia Anzani, co-autrice decenne integrata perfettamente
nella rosa di autori, che riesce a tenere testa anche a quelli più grandi e
allenati di lei esprimendo un messaggio di solidarietà con l’avventura di Balù
e del salvataggio dell’ “amico uomo” [Buck
e il terremoto, p. 74].
La raccolta di racconti non ha
l’ambizione di annoverarsi tra le grandi letture, ma nel suo piccolo riesce a
ricordare con forza che tutti possiamo dare una mano, o una zampa - come ci
insegnano gli autori di quest’antologia -, per rendere migliore il mondo e per
stringerci in quella “social catena” [La
ginestra] tanto auspicata da Leopardi.
A cura di Tonino Mangano
lunedì 14 novembre 2016
Recensione: Eccomi di Jonathan Safran Foer
Eccomi, Jonathan Sagran Foer
Guanda
666 pagine, 22 euro
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Eccomi, ripeté sul monte Moria, pronto a sacrificare a quel Dio suo figlio.
Eccomi, sembra cercare di dire Jacob Bloch nella sua vita, senza mai riuscirci completamente.
Uscito a fine agosto per Guanda, il quarto libro di Jonathan Safran Foer sembra essere un inno all'incapacità di tenere le redini di un'esistenza, un catalogo degli eventi senza apparente causa-effetto che formano la vita.
Al centro della narrazione, quattro generazione della famiglia Bloch: il patriarca Isaac, ormai considerato troppo vecchio per vivere da solo; Irv, primo della dinastia Bloch a sentirsi a tutti gli effetti un ebreo americano; Jacob e Julia, vero motore della narrazione; i figli Sam, Max, Benji, ma anche il cane Argo. A smuovere gli eventi e le vite di questi attori inconsapevoli, un Bar Mitzvah che rischia di saltare, un cellulare pieno di messaggi erotici, l'arrivo dei parenti da Israele, una gita scolastica, la vecchiaia come rinuncia dell'indipendenza, la morte virtuale di un avatar, notti allo zoo e una distopica distruzione a opera di un terremoto devastante dello stato di Israele.
Del resto, come scritto da Matteo Persivale su La Lettura del 25 Settembre, “per Foer anche l'Apocalisse sarebbe il contorno del piatto di portata”.
Eccomi è un romanzo corposo, non solo per le sue 665 pagine, ma anche per l'intento di Safran Foer di farci stare dentro tutto (la vita, l'universo e tutto quanto, direbbe Douglas Adams): ogni esperienza, ogni aspetto della vita matrimoniale e delle dinamiche familiari di un ebreo americano alle prese con le vicende ebree americane degli anni '10 del ventunesimo secolo. Le voci si intrecciano: Julia, amareggiata e stressata da una famiglia che non riesce a donarle quello di cui ha veramente bisogno; Jacob e il suo desiderio di fuggire, senza mai averne davvero il coraggio; Sam, il primo amore, diventare adulti e tornare alla realtà; Max, dieci anni e una dialettica presocratica, un personaggio irreale eppure quello che più sembra essere la colonna portante di questa famiglia che poggia su fondamenta di silenzio e idiosincrasie.
Eccomi è anche un romanzo profondamente ebreo, con il suo bel glossario in appendice e quei ragionamenti che ogni lettore identifica con la letteratura ebraico-americana. C'è il senso di appartenenza a una nazione lontana, ci sono le riflessioni sull'antico testamento, c'è quel sentimento di vergogna riservata che si ritrova in Safran Foer, Roth, Bellow.
Ci sono un sacco di cose, in Eccomi, credo di essere riuscita a far passare il messaggio, forse troppe. Gli eventi, la vita quotidiana, il massiccio uso di prolessi e analessi, tutto concorre a creare una narrazione che vorrebbe essere un luculliano pasto a dodici portate, ma finisce per somigliare a una ciotola di cereali con mandorle, uvetta, fiocchi d'avena e gocce di cioccolato da ricercare scandagliando col cucchiaio i fondali lattei. Non c'è niente che non va, in questo romanzo – del resto mandorle, uvetta e gocce di cioccolato sono buone -, ma la lettura procede affaticata dalla vastità dell'universo che si dispiega davanti agli occhi del lettore, distraendolo dalla bellezza stessa della scrittura di Safran Foer.
Nonostante Eccomi sia un romanzo strutturalmente complesso e non omogeneo, il capitolo finale raggiunge con una stretta decisa l'essenza del romanzo, la presenza come prova di amore, collegando i cavi sfilacciati dei temi seminati tra le pagine e salvando un romanzo per molti versi non proprio riuscito.
Eccomi è un romanzo che debitamente sfrondato avrebbe rappresentato il punto punto più alto della carriera di Safran Foer, che purtroppo però sembra essersi dimenticato di quella regoletta da scrittori che recita kill your darlings. Del resto, come avrebbe detto Max, il fratello di Sam, tre anni dopo nel suo discorso per il Bar Mitzvah: “Alla fine riesci a tenerti solo quello che ti rifiuti di lasciare andare” e Jonathan Safran Foer, in questo romanzo che non è autobiografico, ma potrebbe anche esserlo, si è rifiutato di lasciare andare anche solo un piccolo pezzo.
Recensione a cura di Angela Bernardoni
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lunedì 7 novembre 2016
Video: Sono tornata! Novità e libri
Libri nominati:
Scomparsa di Joyce Carol Oates: 3:43
Mentre morivo di Faulkner: 5:34
La scopa del sistema di D.F. Wallace: 10:40
Tempo senza scelte di Paolo di Paolo: 13.23
Schiavi di un dio minore di Giovanni Arduino e Loredana Lipperini: 14:20
Le ragazze di Emma Cline: 16:23
Da una storia vera di Delphine De Vigan: 18:30
Quando amavamo Hemingway di Naomi Wood: 20:21
La spia del mare di Virginia De Winter: 23:50
Ciao a tutti! Finalmente vi aggiorno sulle ultime novità e sui libri letti. Se volete, potete sentirmi blaterare di libri anche sulla mia pagina facebook:
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E sull'account Instagram:
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Potete leggere le recensioni che ho nominato a questi link:
Le ragazze di Emma Cline: https://www.goo.gl/WDTCh6
La spia del mare di Virginia De Winter: https://www.goo.gl/lDRIwC
Quando amavamo Hemingway di Naomi Wood: https://www.goo.gl/lqic9n
Se volete, di questo libro si può acquistare anche la copia autografata qui: https://goo.gl/QayGVF
Le recensioni di Tempo senza scelte (con intervista), Scomparsa e Schiavi di un dio minore devono ancora essere pubblicate
mercoledì 2 novembre 2016
Recensione: Io non mi chiamo Miriam di Majgull Axelsson
Io non mi chiamo Miriam, Majgull Axelsson
Iperborea
562 pagine, € 19,50
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vicende degli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti.
Io non mi chiamo Miriam è molto più di un semplice racconto: può essere considerato anche un romanzo di formazione e di ricerca dell’io; pagina dopo pagina vediamo la protagonista cambiare identità e assumere in definitiva una personalità frammentata, costantemente divisa tra un passato quasi dimenticato e un presente ottenuto con le unghie e coi denti. L’autrice si è documentata sui problemi comuni dei prigionieri e reduci dei lager, colpiti molto spesso da stress post traumatico: a volte, quando è troppo doloroso, si preferisce non pensare al ricordo in questione, addirittura arrivando a cancellarlo.
La trama si dipana attraverso gli occhi di Malika, una ragazzina rom deportata ad Auschwitz insieme al fratellino e alla cugina; durante il successivo trasferimento a Ravensbrück, la giovane cambia il proprio vestito logoro con quello di Miriam, una coetanea ebrea morta durante il viaggio. Per un evento del tutto fortuito la ragazza ottiene una nuova identità e porta avanti il ruolo che il caso le ha affidato: Malika/Miriam non è più né rom né ebrea, solo se stessa. Sente di aver abbandonato il suo popolo, ma è stato l’unico modo per sopravvivere: negli anni cerca con scarsi risultati di vincere il senso di colpa e perdonarsi per quello che percepisce come un profondo tradimento nei confronti della sua gente.
La struttura del romanzo è ampia e complessa e ripercorre quasi tutta la vita della protagonista: molti sono i punti toccanti e intensi che lasciano il lettore ferito e profondamente coinvolto. Tranne alcuni veloci e sporadici riferimenti in prima persona, dedicati alle parti più drammatiche, il romanzo è narrato in terza persona, dal punto di vista di Miriam. La giovane cresce all’interno del campo, fa lì le sue prime esperienze, tocca con mano il dolore fisico e soprattutto quello psicologico: da qui nasce la semplicità e la purezza del suo racconto e, grazie alla capacità dell’autrice di calarsi nei panni della ragazzina, il lettore rimane ancora più colpito e rapito. La maggior parte del volume è dedicata ai ricordi del campo di sterminio, i flashback sono molto presenti e continui: il passaggio dalla Svezia del dopoguerra alle cupe baracche di Ravensbrück è sfumato e onirico e rispecchia la frammentazione della personalità di Miriam. I salti temporali si fanno via via più profondi e significativi, accompagnati da alcune pause nella narrazione, fino ad arrivare alla rivelazione definitiva: la mattina del suo ottantacinquesimo compleanno, ormai anziana e circondata da tutti i suoi affetti, la protagonista svela alla nipote la sua vera identità, complice anche un braccialetto di artigianato zingaro ricevuto come regalo.
I personaggi sono credibili e ben realizzati, grazie a una fine introspezione psicologica e a una precisa ricostruzione caratteriale. La protagonista risulta spaccata e frammentata, divisa tra la piccola Malika, una ragazzina rom cresciuta prima dalle suore e poi in un campo di sterminio, e Miriam, l’ebrea di cui si conosce solo il nome e il numero di matricola; entrambe non sanno come sia realmente la vita fuori dal lager e non sanno come si possa sopravvivere alla libertà stessa. Malika ha perso la madre quando era molto piccola e ha dovuto sempre badare al fratellino Didi, per questo non ha potuto vivere un’infanzia serena, è cresciuta troppo in fretta. Nel dopoguerra crede che la Svezia sia il paese ideale; scopre invece quasi subito che i rom sono perseguitati anche in quello splendido paradiso e decide di diventare qualcuno che non esiste, vivendo nella paura che si scoprano le sue origini. Nel campo le prigioniere ebree erano costantemente vessate dalle sorveglianti, ma i rom erano temuti e tormentati un po’ da tutti, anche dai loro stessi compagni di sventura: per questo la vita di Miriam diventa una menzogna continua, non crede di poter pretendere nulla. Un altro personaggio veramente ben riuscito è Else, una donna determinata e al contempo dolce che decide di prendersi cura della ragazzina, avendo lasciato la figlia in Norvegia: Else diventa per la giovane un’amica e una sorta di figura materna ed è anche grazie a lei se Miriam trova la forza per sopravvivere all’inferno del lager. Il loro rapporto è forte e saldo ed è uno dei più profondi e toccanti di tutto il volume. Nel campo di sterminio si ricreano vere e proprie famiglie e piccoli microcosmi proprio come in una normale comunità.
Tra i personaggi che incontriamo ad Auschwitz e a Ravensbrück e quelli del dopoguerra abbiamo un certo divario: i primi sono impegnati a resistere, risaltano stoici e coraggiosi nella lotta per la sopravvivenza, caratterizzati da problemi reali e potenzialmente mortali; i secondi invece sono rapiti dalle loro vite, spesso anche inutili, distratti da matrimoni sbagliati, decisioni affrettate e lavori stressanti. Sono in tutto e per tutto uomini e donne della nostra epoca che ci fanno ricordare con le loro condotte assurde l’inutilità di alcuni atteggiamenti di fronte a difficoltà più immediate e importanti. Tra tutti spicca Thomas, il figlio adottivo di Miriam, un uomo insicuro e debole che ha cercato in ogni modo di farsi accettare e amare da un padre assente. Oppure la nipote Camilla, alle prese con un bambino, un ex fidanzato e gli studi di medicina da terminare: la ragazza rappresenta il mondo giovane che si sente in colpa e vorrebbe in un certo senso chiedere scusa alla nonna per le persecuzioni e tutto quello che le è stato portato via. Tra i personaggi sono presenti anche alcuni uomini e donne realmente esistiti: incontriamo Dorothea Binz, una sorvegliante particolarmente violenta, e il tristemente noto dottor Mengele che Miriam conosce da vicino e che annovera tra le sue piccole cavie da esperimento anche Didi, il fratellino della ragazza.
Lo stile è realistico e crudo, vario e complesso; alterna momenti di pura narrazione a ricordi in terza persona, brevi e fugaci ma potenti e metaforici. All’interno del lager quei pochi oggetti e cibi che le prigioniere riescono a tenere ottengono una grande importanza: abbiamo descrizioni fortemente oggettive e altre più personali, macchiate dell’emotività della protagonista. Majgull Axelsson dimostra di avere una notevole capacità di raccontare le immagini della mente, situazioni e paesaggi colorati dai sentimenti, sia positivi che negativi.
I dialoghi sono verosimili e pressanti, profondi e ricchi di pathos. Potremmo dire che esistono due diverse protagoniste: Miriam e Malika sentono, parlano e soffrono in modo diverso. La ragazzina rom è più vera e diretta nell’esternare i propri pensieri, mentre la sua controparte ebrea risulta più pacata, tranquilla e in un certo senso irreale e impostata: è affascinante vedere l’alternarsi tra Malika e Miriam, con la coscienza rom che ogni tanto torna fiera in superficie. Sul finale il passato, il presente e le due diverse identità si uniscono in una donna più consapevole che ha ormai trovato la pace e anche un certo equilibrio.
In definitiva Io non mi chiamo Miriam è un romanzo semplice e profondo in cui nulla è lasciato al caso e va per questo valutato da più punti di vista: non appartiene solo alla cosiddetta letteratura dell’Olocausto e non è per questo una classica testimonianza del campo di sterminio. Può essere considerato anche come uno spaccato della società del dopoguerra, di quello che trapelava al tramontare del nazismo e soprattutto della situazione delle donne. Tra le sue tematiche annovera problematiche attuali come la ricerca dell’identità culturale e personale, il razzismo e le persecuzioni che non hanno mai fine. Nonostante la nostra società si ponga come profondamente solidale e rispettosa di tutte le etnie, la protagonista è stata costretta a subire violenze anche al di fuori del lager. Io non mi chiamo Miriam porta alla riflessione, solleva nuove domande nei lettori e fa inoltre luce sullo sterminio dei Rom avvenuto nel periodo nazista, un dramma passato troppo spesso in sordina e a volte dato per scontato. Majgull Axelsson riesce infine a rappresentare con forza e verità tutto quello che è disposto a fare un uomo pur di essere accettato dalla società: proprio per questo Miriam mantiene il suo segreto e vive nella menzogna e nella paura per circa settant’anni, spinta da un desiderio spesso più forte di qualsiasi altra cosa.
Voto:
lunedì 31 ottobre 2016
Recensione: Trigger Warning di Neil Gaiman
Trigger Warning, Neil Gaiman
Mondadori
307 pagine, 19,90 euro
|
pubblicati singolarmente in altre raccolte) a firma di Neil Gaiman, sia per quanto riguarda i generi, sia per quanto riguarda la lunghezza. La scelta di inserire delle poesie, abbastanza inconsueta per una pubblicazione di questo tipo, si rivela una scelta di grande effetto, e anche l’introduzione, dove l’autore spiega il significato dell’espressione che ha dato titolo alla raccolta, risulta particolarmente interessante:
Gaiman afferma che tutte le storie dovrebbero portare questa dicitura, perché in grado di condurre a luoghi dove non si pensava di andare, minare le nostre certezze, riportare a un passato dal quale si stava fuggendo o mostrare proprio ciò di cui si ha più paura.
Il lettore viene inoltre avvisato che questo libro non contiene racconti omogenei, e che quasi ognuno di essi non finisce bene per almeno uno dei personaggi. Viene poi spiegata con dovizia di particolari la genesi che ha dato vita ai ventiquattro brani. È lasciata comunque al singolo lettore la facoltà di scegliere se gustarsi semplicemente la lettura dell’antologia, oppure se affiancarla ai commenti scritti dall’autore.
Le storie di Gaiman coprono qualunque ramo del fantastico, dalle storie di fantasmi alla fantascienza, da Doctor Who a Sherlock Holmes, dallo Shadow di American Gods alla Bella Addormentata, passando per poemi, streghe e poesie.
Il suo stile di scrittura è, come al solito, molto pulito e decisamente efficace. I racconti sono sempre ben strutturati, in molti casi inquietanti. Lo stile di Gaiman è sempre riconoscibile, a tratti onirico, malinconico e drammatico laddove necessario, ironico all’occorrenza, talora capace di stupire con dei finali a effetto.
Chi ha apprezzato American Gods, romanzo che è valso allo scrittore numerosi premi letterari, sarà lieto di leggere il racconto Cane Nero, ambientato nel medesimo universo narrativo, con protagonista Shadow Moon. La sensazione di déjà vu non finisce qui: l'antologia contiene infatti anche Le Niente in Punto, in cui il protagonista è nondimeno che il celebre Doctor Who dell’omonima serie TV, di cui lo stesso Gaiman ha sceneggiato alcuni episodi (in questo racconto c’è però una piccola stonatura: la nota cabina del telefono blu, macchina del tempo nonché astronave del Dottore, viene tradotta come la Tardis, anziché il Tardis come in tutte le versioni televisive italiane). Come se non bastasse, ritroviamo un perfetto Sherlock Holmes nel racconto Il Caso della Morte e del Miele, che ci metterà di fronte ai fatti che precedono e seguono la morte di Mycroft, fratello maggiore del noto detective.
Particolarmente riuscito anche il racconto Arancione, una sorta di esercizio di stile in cui la storia si deve estrapolare dalle risposte date da una ragazza a un interrogatorio, di cui è riportata la mera trascrizione.
In Click-Clack Sacchetto sbatacchiante troviamo la conferma che le storie per bambini possono essere le più paurose. Soprattutto quando a raccontarle è un bambino.
In conclusione: l’antologia di racconti Trigger Warning, la terza firmata da Neil Gaiman, si pone nel solco già tracciato dall’autore, che conferma di riuscire a lavorare abilmente con il genere fantastico in modo semplice e naturale, riuscendo ad affrontare molteplici tematiche e diversi punti di vista. È poi la capacità di reinventarsi in ogni racconto che rende difficile al lettore allontanare gli occhi dalle pagine del libro.
Voto:
giovedì 27 ottobre 2016
"Lo schiavista" ha vinto il Man Booker Prize 2016. Le motivazioni del premio
Lo
schiavista di Paul Beatty (nda, The Sellout in originale,
in italiano edito Fazi e tradotto da Silvia uno dei premi più prestigiosi
per la letteratura in lingua inglese dal 1969.
Castoldi) ha vinto il Man Booker Prize 2016,
Castoldi) ha vinto il Man Booker Prize 2016,
«Un
romanzo dei nostri tempi» lo ha definito la storica Amanda Foreman,
a capo della giuria. Si tratta forse di un libro troppo difficile da
digerire, ma, ha sottolineato, la fiction non deve essere un genere
di conforto.
«È
per questo che il romanzo funziona. Mentre sei fermo lì, incapace di
muoverti, sei stato solleticato: è un atto estremo che sprigiona
verve, energia e fiducia. Non ci si arrende, né si contrasta. Questa
è la scrittura di qualcuno che gioca al di sopra degli schemi (…).
The Sellout è uno di quei libri molto rari: è in grado di
prendere la satira, una materia difficile e non sempre fatta bene, e
immergerla nel cuore della società americana contemporanea con uno
spirito selvaggio che non ritrovavo dai tempi di Swift o Twain.
Riesce a sviscerare ogni tabù sociale o sfumatura di politicamente
corretto, ogni dogma. Pur facendo ridere, ci fa provare imbarazzo. È
divertente e doloroso allo stesso tempo».
Paul
Beatty ha ritirato il premio, consistente in cinquantamila sterline e
una copia in rilegatura speciale del proprio romanzo, visibilmente
commosso, e ha sostenuto con orgoglio che «la scrittura mi ha dato
una vita». È il
primo americano a vincere il Man Booker Prize, battendo altri cinque
autori finalisti (Madeleine Thien con Do
Not Say We Have Nothing; Deborah Levy
con Hot Milk;
Graeme Macrae Burnet con His Bloody
Project; Ottessa Moshfegh con Eileen
e David Szalay con All That Man Is)
con il racconto del tentativo di reintrodurre la schiavitù nella
moderna Los Angeles.
Il premio sembra aver cominciato a respirare un'aria diversa da due anni a questa parte, con l'estensione della possibilità di partecipazione agli autori di tutte le nazionalità (purché il loro testo sia stato pubblicato originariamente in lingua inglese e nel Regno Unito) per la polemica lanciata proprio dalla critica USA al suo vincolo di territorialità (prima del 2014, potevano parteciparvi solo gli autori del Regno Unito, del Commonwealth, della Repubblica d'Irlanda e dello Zimbabwe).
Il premio sembra aver cominciato a respirare un'aria diversa da due anni a questa parte, con l'estensione della possibilità di partecipazione agli autori di tutte le nazionalità (purché il loro testo sia stato pubblicato originariamente in lingua inglese e nel Regno Unito) per la polemica lanciata proprio dalla critica USA al suo vincolo di territorialità (prima del 2014, potevano parteciparvi solo gli autori del Regno Unito, del Commonwealth, della Repubblica d'Irlanda e dello Zimbabwe).
Piccola curiosità: a
vincere per il secondo anno consecutivo è un romanzo edito dalla
casa editrice indipendente Oneworld, come a voler dimostrare
l'apprezzamento della giuria per un mondo alternativo ai grandi
gruppi editoriali che negli ultimi anni, nonostante la forte crisi
registrata anche oltre Manica, hanno saputo donare ai lettori testi
di qualità e degni del riconoscimento e della visibilità che la
vittoria del premio gli ha regalato.
mercoledì 19 ottobre 2016
Speciale Frankfurt Buchmesse 2016: le proposte editoriali delle agenzie americane
Si parlerà di nuove sinergie tra i vari settori dell'arte, di politiche a favore dell'innovazione creativa (ampio spazio sarà dato alla spiegazione dei meccanismi di accesso ai finanziamenti per le attività culturali previsti dai programmi Horizon2020 e Creative Europe), dei mutamenti del mercato culturale e del sempre più necessario connubio tra arte e tecnologia, al fine di rinnovare un settore che nell'ultimo decennio ha dovuto fare i conti con il boom digitale.
Interessanti le attività che si svolgeranno durante le giornate della Buchmesse e che coinvolgeranno anche l'Italia, con un nuovo spazio allargato (si vocifera, grazie al successo che i romanzi di Elena Ferrante hanno avuto nel mondo anglosassone e latino) e la presenza di Nicola Lagioia, Vincenzo Latronico e Fluer Jaeggy.
Per quanto riguarda le proposte che le agenzie letterarie americane presenteranno agli editori europei, abbiamo fatto una piccola cernita ricercando le novità più succulente. Alcuni testi sono già stati pubblicati, altri sono preordinabili nei bookstore online, uno ha già venduto i suoi diritti in 27 paesi, per un altro bisognerà aspettare ancora un po' per una preview (ancora topsecret, ad esempio, la cover del nuovo thriller di Michael Crichton, Dragon Teeth).
Impossibile non notare la tendenza a puntare al thriller, tra storie di spionaggio, connubi tra giallo e sci-fi, horror stories e classiche crime fiction. Pochi i titoli di narrativa e interessanti i volumi per bambini.
Ma andiamo con ordine.
In attesa dell'uscita del film, a dicembre nelle sale, tra i titoli già pubblicati troviamo Tales of the Peculiar (Dutton), prequel della serie Miss Peregrine’s Home for Peculiar Children, dove Ramson Riggs raccoglie storie originali annotate da Millard Nullings, studioso che si trova sotto la custodia di Miss Peregrine.
Questo mese viene pubblicato Nobody’s Son di Mark Slouka (Norton), un memoir nel quale l'autore racconta la fuga dei suoi genitori cecoslavacchi dalle purghe staliniste dopo la Seconda Guerra Mondiale. Slouka traccia le cronache del loro viaggio tra Innsbruck e Sydney fino a New York, portando in grembo ricordi di sangue e tradimenti e un figlio non ancora nato.
Il prossimo mese uscirà il dodicesimo volume delle Cronache dei Vampiri di , dal titolo Prince LeStat and the Realms of Atlantis (Knopf). Qui il noto vampiro Lestat de Lioncourt dovrà vedersela con un antico e misterioso potere, quello di Atalantaya legato al perduto mondo di Atlantide, che rischia di distruggere gli equilibri del mondo vampirico.
Anne Rice
Anche l'autrice della saga di Twilight, Stephenie Meyer, si cimenta con il genere thriller con The Chemist (Little, Brown) storia di un'ex agente in fuga che, per scampare a coloro che vogliono farla fuori, accetterà di svolgere un ultimo incarico, rischiando la pelle in un gioco pericoloso e innamorandosi di un uomo che potrebbe compromettere le sue chance di sopravvivenza.
Trevor Noah raccoglie alcuni saggi personali in Born a Crime
(Random/Spiegel & Grau), un volume che racconta la crescita di un ragazzo irrequieto e gli sforzi della madre per strapparlo a una vita di povertà, abusi e violenza. La storia avvincente, stimolante e “comicamente sublime” di un uomo di mezza età che ha visto il tramonto dell'apartheid e le lotte per la libertà degli afroamericani.
A gennaio sarà la volta del nuovo romanzo di Ottessa Moshfegh, candidata al Man Booker Prize 2016 per il suo romanzo d'esordio Eileen. Il libro le è valso il paragone con Shirley Jackson, il primo Vladimir Nabokov ma, soprattutto, il titolo di libro dell'anno dal Washington Post, la nomination al National Book Critics Circle Award e il premio PEN/Hemingway al suo debutto letterario. Homesick for Another World (Penguin Press) è una raccolta di storie di personaggi instabili che rappresentano la varietà della condizione umana, nelle quali grottesco e scandaloso si mescolano alla compassione e alla tenerezza. Insomma, la Moshfegh racconta un mondo crudele nel quale la bellezza arriva all'improvviso da fonti sconosciute.
Altro mistery, altro debutto: Everything You Want Me to Be (Atria/Bestler) di Mindy Mejia racconta dell'omicidio di una ragazza in una scuola superiore e delle indagini dello sceriffo locale Del Goodman, accompagnati una riflessione sul sottile limite tra innocenza e colpevolezza, realtà e finzione.
Nel mese successivo, uscirà Right Behind You (Dutton) di Lisa Gardner, che si conferma regina del thriller con il settimo volume della serie FBI Profiler dedicata alle indagini di Pierce Quincy, agente dell’ FBI, e della moglie Raine Conner, detective della omicidi, che questa volta avranno a che fare con una serie di delitti apparentemente commessi dal fratello della loro figlia adottiva.
Impeccabile combinazione di suspense, psicologia, dramma erotico e mistero per l'esordio di Sara Flannery Murphy, The Possessions (Harper). L'autrice racconta di Eurydice, che lavora per una società che si occupa di contatti con l'ultraterreno e i morti. Il suo lavoro richiede un certo distacco con i clienti, per evitare coinvolgimenti, ma quest’etica viene meno quando si innamora di Patrick e si mette in contatto con la moglie morta di lui, uccisa in circostanze misteriose.
Riscrittura de La Tempesta di Shakespeare, Miranda and Caliban di Jacqueline Carey (Tor), narra i dodici anni precedenti alla vicenda della commedia del bardo, focalizzandosi sulla ricerca d'identità da parte di Miranda e affrontando le tematiche del potere, del controllo, dell'innocenza e della sessualità, riproponendo in chiave creativa una vicenda classica – a dire dell'editore – pur rimanendovi fedele.
Usciranno poi, a marzo, due romanzi davvero interessanti: il primo è Omega Canyon di Dan Simmons (Little, Brown) che, in bilico tra narrazione storica e toni noir, segue la storia di due fratelli viennesi che viaggiano nell'Europa del primo dopoguerra. La loro vita cambierà quando si occuperanno uno di lavorare come fisico alla costruzione della bomba atomica a Los Alamos e l'altro nel Commando di un operazione speciale inglese
. Mentre uno cercherà di porre fine alla guerra, l'altro dovrà rischiare tutto per salvare la famiglia dell’altro. Una action story audace, che racconta dell'amore fraterno e della lotta per la libertà.
Il secondo è la nuova storia dell'autrice di Fiore di neve e il ventaglio segreto, Lisa See, intitolata The Tea Girl of Hummingbird Lane (Scribner) e ambientata tra una piccola località della Cina famosa per il tè e Pasadina, una cittadina della California. Ancora una volta si affronta il problema della separazione familiare e del rapporto madre-figlia, la ricerca d'identità di chi è adottato e vuole conoscere le proprie origini, raccontando l'Oriente sconosciuto, anacronistico e affascinante come solo la See sa fare
.
Aprile ancora all'insegna del thriller, con quello che si ritiene essere uno dei titoli che le case editrici europee si contenderanno, ossia One Perfect Lie (St. Martin’s) di Lisa Scottoline, la vicenda di una madre single che cerca di salvare il figlio timido ed estremamente talentuoso, destinato ad un futuro nella major-league di baseball, dall'oscura piega che sta prendendo la sua vita a causa della sua amicizia con un coetaneo dalla personalità disturbata. Un dramma familiare avvincente e ricco di suspense, secondo l'agenzia che lo propone, per nulla scontato e assolutamente realistico.
Sci-fi thriller per Cory Doctorow, che con Walkaway (Tor), regala il racconto umoristico e crudo di Hubert, comunista, e Natalie, una ricchissima ereditiera che tenta di fuggire al padre oppressivo. I due amanti scoprono l'unica cosa per cui i ricchi ucciderebbero: il segreto per battere la morte. Tra intrighi, distruzione e lotta per la sopravvivenza, Doctorow ci porta in un futuro lontano di cento anni, ma tragicamente vicino alla realtà contemporanea.
Vi segnaliamo, inoltre, altri testi che verranno presentati alla Buchmesse, ma di cui si hanno ancora poche informazioni. Uno di questi è un volume di Design e Fotografia omonimo del famosissimo Tumblr di Mihaela Noroc, Atlas of Beauty, ritratti di donne comuni che la fotografa rumena ha raccolto in giro per il mondo, che verrà pubblicato in USA nell'autunno del prossimo anno. In ultimo, attesissimi il memoir dell'ex chitarrista dei Sex Pistols Steve Jones, il debutto letterario di Mattew Weiner (creatore della serie cult Mad Men) e I'm so pregnant dell'illustratrice e animatrice norvegese Line Severinsen che, con sagacia e ironia, affronta i problemi più imbarazzanti della gravidanza affidandosi al cartoons.
martedì 18 ottobre 2016
Recensione: La coppia perfetta di B.A. Paris
La coppia perfetta, B. A. Paris
Nord
340 pagine, 16,90 euro
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A differenza della maggior parte dei thriller, nel libro di Paris non ci sono colpi di scena o grandi segreti nascosti. Il segreto invece è lì, davanti ai nostri occhi fin dal titolo: Grace e Jack – i nostri protagonisti – non sono la coppia perfetta che vogliono far credere. L’autrice gioca a subito a carte scoperte avvisando fin dalle prime pagine che qualcosa non va, e che questo qualcosa è Jack.
Questo presupposto è molto pericoloso, poiché solitamente nel thriller ciò che mantiene l’attenzione viva fino alla fine sono l'aspettativa di scoprire qualcosa e la bravura dell’autore nel seminare indizi senza far capire troppo. Inoltre, la trama del libro è perfettamente lineare: la nostra narratrice è Grace Angel, casalinga e moglie perfetta, che racconta a capitoli alterni il passato e il presente della sua vita di coppia. Le due linee narrative procedono comunque in perfetto ordine cronologico, senza salti avanti e indietro nel tempo e senza colpi di scena fino a congiungersi nel finale.
Paris gestisce tutto questo con estrema facilità e ci regala un’opera particolare e avvincente, che sa perfettamente come tenere incollato il lettore alle pagine. Pur conoscendo dall’inizio le dinamiche di questa coppia, il lettore rimane comunque curioso di capire in che modo tutto è iniziato e come una donna combattiva come Grace possa accettare tutto ciò che le capita.
Mentre i protagonisti sono ben delineati e interessanti, i personaggi secondari risultano delle semplici macchiette funzionali alla storia, in qualche caso anche troppo caricaturali, ma che riescono lo stesso a fare da contorno perfetto alle vicende.
Lo stile è scarno, parco di descrizioni e elementi che non riguardino strettamente lo svolgimento della trama, ma di questo ci si accorge solo una volta chiuso il libro. è un tipo di scrittura rapida e priva di svolazzi, che tende ad annullarsi in favore della narrazione e che si conforma a pennello con La coppia perfetta.
Non così perfettamente riuscito risulta il finale, che è bello ed è anche plausibile, ma stona, sembra quasi affrettato e non così ben bilanciato come il resto del libro. Non è così fuori luogo da inficiare il giudizio sul libro, ma avrebbe potuto essere migliore.
Voto:
lunedì 17 ottobre 2016
Recensione: Le ragazze di Emma Cline
Le ragazze, Emma Cline
Einaudi Stile Libero
344 pagine, 18.00 euro
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Quello di Emma Cline è un buon libro e un impeccabile esordio, per quanto riguarda il lato linguistico. La storia ripercorre il delitto di Sharon Tate perpetrato dalle seguaci di Charles Manson, e trovo scorretto dire che non abbia un'anima, perché sotto il barocchismo stratificato delle metafore – sempre puntuali, vivide, calzanti – si intravede una sofferenza partecipata. La scrittura assume però una funzione anestetizzante, e le scene più crude e spaventose vengono filtrate da una penna compassionevole. Sembra che l'autrice abbia un istinto di protezione nei confronti della protagonista, una ragazzina che “subisce” la prima esperienza sessuale con un uomo maturo a capo di una comune hippie. Nonostante l'acredine della scena, la Cline, a rischio di inverosimiglianza, mitiga la violenza nella reazione di Evie: “vissi l'intera serata come un momento del destino, sentendomi al centro di un dramma unico e irripetibile”, “mi muovevo con passi sognanti, ricambiavo gli sguardi della gente a cui passavo accanto con un sorriso che non chiedeva nulla”.
Anche durante un'esperienza molto più traumatica, a cui si sottopone volontariamente, la quattordicenne prova un'esile ebbrezza di felicità che ne preserva, forse, la sanità mentale. In entrambi i casi, la Cline giustifica l'atto con il desiderio di compiacere il gruppo di appartenenza, attraverso cui Evie costruisce la propria identità. La ragazza, sebbene ne avverta l'impulso più di una volta, non piange mai, ma i riferimenti all'infantilità e a un mondo fiabesco di luci e ombre sono costanti: “come ci ero arrivata laggiú, in quella roulotte, come mi ero ritrovata nel buio della foresta senza una scia di mollichine da seguire per tornare a casa”, “come nelle favole in cui gli spiritelli maligni possono entrare in una casa solo se è chi ci abita a invitarli”, “sentivo la sua faccia vicino al mio pube infantile. Il suo muso aveva un calore umido da animale”.
La dimensione dell'infantilità si estende a quasi tutti personaggi della vicenda: i genitori separati di Evie, stolti (il padre) o alla continua ricerca di rassicurazioni (la madre), ma soprattutto le ragazze della comune, che risolvono le assenze e le carenze affettive in Russell, una figura paterna che le schiavizza sessualmente e le fa sentire amate e protette. L'adorazione per Russell scaturisce da un meccanismo inconscio che non ha nulla di diverso dalla fiducia fanciullesca verso il genitore idealizzato e ritenuto incapace di sbagliare. La comune assume le forme di una famiglia allargata dove i vestiti appartengono a tutti e la condivisione delle droghe entra a far parte di un rituale domestico, specie durante i party notturni che rafforzano i legami tra i membri del gruppo.
L'infantilità risiede però principalmente nell'atteggiamento acritico delle ragazze, quasi una regressione allo stato embrionale che le rende incapaci di intendere e di volere e che spesso è sottolineata dal loro aspetto fisico – Helen, dalle “guanciotte colorite, i capelli biondi, lisci e flosci, che le cadevano sugli occhi” si tira i codini e parla con una voce da bambina. Sono soggetti respinti dalla società e che hanno costruito, dentro la comune, il proprio percorso etico: una linea immaginaria divide in modo manicheo il ranch, dove vivono, dal mondo circostante, sia in senso morale che in senso geografico, come sottintende la divisione degli spazi. Alcune scene che descrivono l'intimità domestica di una stanza buia e lercia, mentre fuori piove, rendono bene l'idea del microcosmo che rappresenta il ranch e della inaccessibilità del mondo esterno.
È d'altronde così che, all'inizio del libro, vengono presentate le ragazze: avulse dalla realtà, quasi eteree e distaccate: “le ragazze dai capelli lunghi sembravano scivolare su tutto quello che le circondava, figure tragiche e isolate. Come una famiglia reale in esilio.”
Questa condizione di isolamento e di esclusività si esprime anche attraverso il loro corpo, emaciato e magrissimo, utilizzato come merce di scambio per gli scopi del loro patrone.
È lampante poi che la leziosità – il codice – con cui comunicano tra loro nasconda un vuoto che è facile colmare con la crudeltà, una forza ferale che le spingerà a compiere il delitto ordinato da Russell: “L’odio che vibrava sotto la superficie della mia faccia da bambina, penso che Suzanne l’avesse riconosciuto. Certo che la mia mano aspettava il peso di un coltello. La particolare cedevolezza di un corpo umano. C’era così tanta roba da distruggere.”
Potrebbe essere interpretato come un atto di forza verso la società sana, conformista, forse soffocante – rappresentata dalla bellezza di Linda, una creatura innocente “che doveva essere convinta, come capita spesso alle persone belle, che ci fosse una soluzione, che si sarebbe salvata”.
In realtà, più che a una rivendicazione, assomiglia a un gesto meccanico, coronato dal cuore disegnato sul muro del soggiorno, accanto alle vittime insanguinate.
L'episodio, naturalmente, lascia adito a riflessioni sulla banalità del male, già indagate da autori più illustri. È un tema che alla Cline sembra interessare poco: Le ragazze parla principalmente di adolescenza femminile, del bisogno di accettazione e del tentativo di sopravvivere in una società maschilista e patriarcale che replica, nel Sessantanove come nel Duemilasedici, gli stessi schemi prevaricativi. Gli uomini non danno però moto alle azioni della protagonista: sarà sempre e solo il fascino di un'altra ragazza, Suzanne, esecutrice materiale degli omicidi, a spingerla a restare nella comune e a sottomettersi a prove terribili, a testimonianza di un universo psicologico femminile che resta impenetrabile al potere maschile.
Le ragazze si potrebbe definire di una perfezione acerba, tanto levigata e rifinita da apparire tutto sommato fredda, anche se è evidente che l'autrice non ne sia distaccata come sembra. La sottotrama, in cui Evie, nel presente, racconta la propria storia, appare debole e superflua, e nonostante l'ineccepibilità dello stile la vicenda fatica a spiccare, per originalità, tra le tante che vengono proposte dai colleghi americani. Una lettura senza dubbio piacevole e un'autrice a cui riconoscere il merito di un esordio notevole: per i capolavori, comunque, c'è sempre tempo.
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