Io non mi chiamo Miriam, Majgull Axelsson
Iperborea
562 pagine, € 19,50
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vicende degli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti.
Io non mi chiamo Miriam è molto più di un semplice racconto: può essere considerato anche un romanzo di formazione e di ricerca dell’io; pagina dopo pagina vediamo la protagonista cambiare identità e assumere in definitiva una personalità frammentata, costantemente divisa tra un passato quasi dimenticato e un presente ottenuto con le unghie e coi denti. L’autrice si è documentata sui problemi comuni dei prigionieri e reduci dei lager, colpiti molto spesso da stress post traumatico: a volte, quando è troppo doloroso, si preferisce non pensare al ricordo in questione, addirittura arrivando a cancellarlo.
La trama si dipana attraverso gli occhi di Malika, una ragazzina rom deportata ad Auschwitz insieme al fratellino e alla cugina; durante il successivo trasferimento a Ravensbrück, la giovane cambia il proprio vestito logoro con quello di Miriam, una coetanea ebrea morta durante il viaggio. Per un evento del tutto fortuito la ragazza ottiene una nuova identità e porta avanti il ruolo che il caso le ha affidato: Malika/Miriam non è più né rom né ebrea, solo se stessa. Sente di aver abbandonato il suo popolo, ma è stato l’unico modo per sopravvivere: negli anni cerca con scarsi risultati di vincere il senso di colpa e perdonarsi per quello che percepisce come un profondo tradimento nei confronti della sua gente.
La struttura del romanzo è ampia e complessa e ripercorre quasi tutta la vita della protagonista: molti sono i punti toccanti e intensi che lasciano il lettore ferito e profondamente coinvolto. Tranne alcuni veloci e sporadici riferimenti in prima persona, dedicati alle parti più drammatiche, il romanzo è narrato in terza persona, dal punto di vista di Miriam. La giovane cresce all’interno del campo, fa lì le sue prime esperienze, tocca con mano il dolore fisico e soprattutto quello psicologico: da qui nasce la semplicità e la purezza del suo racconto e, grazie alla capacità dell’autrice di calarsi nei panni della ragazzina, il lettore rimane ancora più colpito e rapito. La maggior parte del volume è dedicata ai ricordi del campo di sterminio, i flashback sono molto presenti e continui: il passaggio dalla Svezia del dopoguerra alle cupe baracche di Ravensbrück è sfumato e onirico e rispecchia la frammentazione della personalità di Miriam. I salti temporali si fanno via via più profondi e significativi, accompagnati da alcune pause nella narrazione, fino ad arrivare alla rivelazione definitiva: la mattina del suo ottantacinquesimo compleanno, ormai anziana e circondata da tutti i suoi affetti, la protagonista svela alla nipote la sua vera identità, complice anche un braccialetto di artigianato zingaro ricevuto come regalo.
I personaggi sono credibili e ben realizzati, grazie a una fine introspezione psicologica e a una precisa ricostruzione caratteriale. La protagonista risulta spaccata e frammentata, divisa tra la piccola Malika, una ragazzina rom cresciuta prima dalle suore e poi in un campo di sterminio, e Miriam, l’ebrea di cui si conosce solo il nome e il numero di matricola; entrambe non sanno come sia realmente la vita fuori dal lager e non sanno come si possa sopravvivere alla libertà stessa. Malika ha perso la madre quando era molto piccola e ha dovuto sempre badare al fratellino Didi, per questo non ha potuto vivere un’infanzia serena, è cresciuta troppo in fretta. Nel dopoguerra crede che la Svezia sia il paese ideale; scopre invece quasi subito che i rom sono perseguitati anche in quello splendido paradiso e decide di diventare qualcuno che non esiste, vivendo nella paura che si scoprano le sue origini. Nel campo le prigioniere ebree erano costantemente vessate dalle sorveglianti, ma i rom erano temuti e tormentati un po’ da tutti, anche dai loro stessi compagni di sventura: per questo la vita di Miriam diventa una menzogna continua, non crede di poter pretendere nulla. Un altro personaggio veramente ben riuscito è Else, una donna determinata e al contempo dolce che decide di prendersi cura della ragazzina, avendo lasciato la figlia in Norvegia: Else diventa per la giovane un’amica e una sorta di figura materna ed è anche grazie a lei se Miriam trova la forza per sopravvivere all’inferno del lager. Il loro rapporto è forte e saldo ed è uno dei più profondi e toccanti di tutto il volume. Nel campo di sterminio si ricreano vere e proprie famiglie e piccoli microcosmi proprio come in una normale comunità.
Tra i personaggi che incontriamo ad Auschwitz e a Ravensbrück e quelli del dopoguerra abbiamo un certo divario: i primi sono impegnati a resistere, risaltano stoici e coraggiosi nella lotta per la sopravvivenza, caratterizzati da problemi reali e potenzialmente mortali; i secondi invece sono rapiti dalle loro vite, spesso anche inutili, distratti da matrimoni sbagliati, decisioni affrettate e lavori stressanti. Sono in tutto e per tutto uomini e donne della nostra epoca che ci fanno ricordare con le loro condotte assurde l’inutilità di alcuni atteggiamenti di fronte a difficoltà più immediate e importanti. Tra tutti spicca Thomas, il figlio adottivo di Miriam, un uomo insicuro e debole che ha cercato in ogni modo di farsi accettare e amare da un padre assente. Oppure la nipote Camilla, alle prese con un bambino, un ex fidanzato e gli studi di medicina da terminare: la ragazza rappresenta il mondo giovane che si sente in colpa e vorrebbe in un certo senso chiedere scusa alla nonna per le persecuzioni e tutto quello che le è stato portato via. Tra i personaggi sono presenti anche alcuni uomini e donne realmente esistiti: incontriamo Dorothea Binz, una sorvegliante particolarmente violenta, e il tristemente noto dottor Mengele che Miriam conosce da vicino e che annovera tra le sue piccole cavie da esperimento anche Didi, il fratellino della ragazza.
Lo stile è realistico e crudo, vario e complesso; alterna momenti di pura narrazione a ricordi in terza persona, brevi e fugaci ma potenti e metaforici. All’interno del lager quei pochi oggetti e cibi che le prigioniere riescono a tenere ottengono una grande importanza: abbiamo descrizioni fortemente oggettive e altre più personali, macchiate dell’emotività della protagonista. Majgull Axelsson dimostra di avere una notevole capacità di raccontare le immagini della mente, situazioni e paesaggi colorati dai sentimenti, sia positivi che negativi.
I dialoghi sono verosimili e pressanti, profondi e ricchi di pathos. Potremmo dire che esistono due diverse protagoniste: Miriam e Malika sentono, parlano e soffrono in modo diverso. La ragazzina rom è più vera e diretta nell’esternare i propri pensieri, mentre la sua controparte ebrea risulta più pacata, tranquilla e in un certo senso irreale e impostata: è affascinante vedere l’alternarsi tra Malika e Miriam, con la coscienza rom che ogni tanto torna fiera in superficie. Sul finale il passato, il presente e le due diverse identità si uniscono in una donna più consapevole che ha ormai trovato la pace e anche un certo equilibrio.
In definitiva Io non mi chiamo Miriam è un romanzo semplice e profondo in cui nulla è lasciato al caso e va per questo valutato da più punti di vista: non appartiene solo alla cosiddetta letteratura dell’Olocausto e non è per questo una classica testimonianza del campo di sterminio. Può essere considerato anche come uno spaccato della società del dopoguerra, di quello che trapelava al tramontare del nazismo e soprattutto della situazione delle donne. Tra le sue tematiche annovera problematiche attuali come la ricerca dell’identità culturale e personale, il razzismo e le persecuzioni che non hanno mai fine. Nonostante la nostra società si ponga come profondamente solidale e rispettosa di tutte le etnie, la protagonista è stata costretta a subire violenze anche al di fuori del lager. Io non mi chiamo Miriam porta alla riflessione, solleva nuove domande nei lettori e fa inoltre luce sullo sterminio dei Rom avvenuto nel periodo nazista, un dramma passato troppo spesso in sordina e a volte dato per scontato. Majgull Axelsson riesce infine a rappresentare con forza e verità tutto quello che è disposto a fare un uomo pur di essere accettato dalla società: proprio per questo Miriam mantiene il suo segreto e vive nella menzogna e nella paura per circa settant’anni, spinta da un desiderio spesso più forte di qualsiasi altra cosa.
Voto:
Avevo letto la trama di questo libro sul sito dell'Iperborea, che ogni tanto mi diverto a sbirciare per pura curiosità, e mi sembrava davvero particolare ed interessante. Tuttavia sono sempre un po' frenata nello spendere tanti soldi (perché si sa, le edizioni Iperborea sono stupende ma costicchiano) per autori che non conosco e non sono sicura al 100% possano piacermi. La tua recensione, così densa e ricca di emozioni, ha alimentato l'interesse che questo libro, giù dal titolo, ha saputo suscitarmi e quindi... probabilmente ci farò un pensierino ^^
RispondiEliminaE' una storia appassionante che rimane dentro, precisa sia per quanto riguarda le emozioni che a livello di ricostruzione storica. Te lo consiglio!
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