lunedì 17 ottobre 2016

Recensione: Le ragazze di Emma Cline

Le ragazze, Emma Cline
Einaudi Stile Libero
344 pagine, 18.00 euro
I giudizi che si sono voluti appiccicare allo stile di Emma Cline godono di un punto d'incontro unanime: è una scrittura perfetta, chirurgica, estetizzante e sensibile ai dettagli. Quello che sembra essere un dato di fatto ha però originato opinioni ambivalenti, derivate dal dubbio che si tratti del “prodotto di un'industria”, un millimetrico esercizio da laboratorio “frutto di una ventina di editing”. Ho avuto la stessa impressione di Alessandro Baricco – che qualcosa di simile ha comunque fatto con la sua Scuola –, ed è una sensazione che si alimenta man mano che leggo le giovani promesse della nuova letteratura americana. Donna Tartt, per esempio, a cui la Cline si può accostare: la stessa eleganza, la stessa bellezza decadente, forse addirittura la stessa tecnica. Un'aura di raffinatezza, composta pure quando si concede una parola volgare, sapientemente smussata a ogni angolo. Ma anche: lo stesso gusto per le narrazioni sull'adolescenza, la perdita dell'innocenza, l'iniziazione sessuale. Sono temi che attingono a un background più ampio, per cui gli americani sembrano avere una smodata passione, e che li rende quasi tutti drammaticamente uguali. Scrivono bene, possiedono la capacità – di certo non indifferente – di trascinare il lettore dentro la storia. Eppure si fermano al grado di narratori, ottimi narratori, che forse dimenticheremo tra qualche anno.


Quello di Emma Cline è un buon libro e un impeccabile esordio, per quanto riguarda il lato linguistico. La storia ripercorre il delitto di Sharon Tate perpetrato dalle seguaci di Charles Manson, e trovo scorretto dire che non abbia un'anima, perché sotto il barocchismo stratificato delle metafore – sempre puntuali, vivide, calzanti – si intravede una sofferenza partecipata. La scrittura assume però una funzione anestetizzante, e le scene più crude e spaventose vengono filtrate da una penna compassionevole. Sembra che l'autrice abbia un istinto di protezione nei confronti della protagonista, una ragazzina che “subisce” la prima esperienza sessuale con un uomo maturo a capo di una comune hippie. Nonostante l'acredine della scena, la Cline, a rischio di inverosimiglianza, mitiga la violenza nella reazione di Evie: “vissi l'intera serata come un momento del destino, sentendomi al centro di un dramma unico e irripetibile”, “mi muovevo con passi sognanti, ricambiavo gli sguardi della gente a cui passavo accanto con un sorriso che non chiedeva nulla”.

Anche durante un'esperienza molto più traumatica, a cui si sottopone volontariamente, la quattordicenne prova un'esile ebbrezza di felicità che ne preserva, forse, la sanità mentale. In entrambi i casi, la Cline giustifica l'atto con il desiderio di compiacere il gruppo di appartenenza, attraverso cui Evie costruisce la propria identità. La ragazza, sebbene ne avverta l'impulso più di una volta, non piange mai, ma i riferimenti all'infantilità e a un mondo fiabesco di luci e ombre sono costanti: “come ci ero arrivata laggiú, in quella roulotte, come mi ero ritrovata nel buio della foresta senza una scia di mollichine da seguire per tornare a casa”, “come nelle favole in cui gli spiritelli maligni possono entrare in una casa solo se è chi ci abita a invitarli”, “sentivo la sua faccia vicino al mio pube infantile. Il suo muso aveva un calore umido da animale”.

La dimensione dell'infantilità si estende a quasi tutti personaggi della vicenda: i genitori separati di Evie, stolti (il padre) o alla continua ricerca di rassicurazioni (la madre), ma soprattutto le ragazze della comune, che risolvono le assenze e le carenze affettive in Russell, una figura paterna che le schiavizza sessualmente e le fa sentire amate e protette. L'adorazione per Russell scaturisce da un meccanismo inconscio che non ha nulla di diverso dalla fiducia fanciullesca verso il genitore idealizzato e ritenuto incapace di sbagliare. La comune assume le forme di una famiglia allargata dove i vestiti appartengono a tutti e la condivisione delle droghe entra a far parte di un rituale domestico, specie durante i party notturni che rafforzano i legami tra i membri del gruppo.

L'infantilità risiede però principalmente nell'atteggiamento acritico delle ragazze, quasi una regressione allo stato embrionale che le rende incapaci di intendere e di volere e che spesso è sottolineata dal loro aspetto fisico – Helen, dalle “guanciotte colorite, i capelli biondi, lisci e flosci, che le cadevano sugli occhi” si tira i codini e parla con una voce da bambina. Sono soggetti respinti dalla società e che hanno costruito, dentro la comune, il proprio percorso etico: una linea immaginaria divide in modo manicheo il ranch, dove vivono, dal mondo circostante, sia in senso morale che in senso geografico, come sottintende la divisione degli spazi. Alcune scene che descrivono l'intimità domestica di una stanza buia e lercia, mentre fuori piove, rendono bene l'idea del microcosmo che rappresenta il ranch e della inaccessibilità del mondo esterno.

È d'altronde così che, all'inizio del libro, vengono presentate le ragazze: avulse dalla realtà, quasi eteree e distaccate: “le ragazze dai capelli lunghi sembravano scivolare su tutto quello che le circondava, figure tragiche e isolate. Come una famiglia reale in esilio.”
Questa condizione di isolamento e di esclusività si esprime anche attraverso il loro corpo, emaciato e magrissimo, utilizzato come merce di scambio per gli scopi del loro patrone.
È lampante poi che la leziosità – il codice – con cui comunicano tra loro nasconda un vuoto che è facile colmare con la crudeltà, una forza ferale che le spingerà a compiere il delitto ordinato da Russell: “L’odio che vibrava sotto la superficie della mia faccia da bambina, penso che Suzanne l’avesse riconosciuto. Certo che la mia mano aspettava il peso di un coltello. La particolare cedevolezza di un corpo umano. C’era così tanta roba da distruggere.”

Potrebbe essere interpretato come un atto di forza verso la società sana, conformista, forse soffocante – rappresentata dalla bellezza di Linda, una creatura innocente “che doveva essere convinta, come capita spesso alle persone belle, che ci fosse una soluzione, che si sarebbe salvata”.
In realtà, più che a una rivendicazione, assomiglia a un gesto meccanico, coronato dal cuore disegnato sul muro del soggiorno, accanto alle vittime insanguinate.

L'episodio, naturalmente, lascia adito a riflessioni sulla banalità del male, già indagate da autori più illustri. È un tema che alla Cline sembra interessare poco: Le ragazze parla principalmente di adolescenza femminile, del bisogno di accettazione e del tentativo di sopravvivere in una società maschilista e patriarcale che replica, nel Sessantanove come nel Duemilasedici, gli stessi schemi prevaricativi. Gli uomini non danno però moto alle azioni della protagonista: sarà sempre e solo il fascino di un'altra ragazza, Suzanne, esecutrice materiale degli omicidi, a spingerla a restare nella comune e a sottomettersi a prove terribili, a testimonianza di un universo psicologico femminile che resta impenetrabile al potere maschile.

Le ragazze si potrebbe definire di una perfezione acerba, tanto levigata e rifinita da apparire tutto sommato fredda, anche se è evidente che l'autrice non ne sia distaccata come sembra. La sottotrama, in cui Evie, nel presente, racconta la propria storia, appare debole e superflua, e nonostante l'ineccepibilità dello stile la vicenda fatica a spiccare, per originalità, tra le tante che vengono proposte dai colleghi americani. Una lettura senza dubbio piacevole e un'autrice a cui riconoscere il merito di un esordio notevole: per i capolavori, comunque, c'è sempre tempo.

Voto: 

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