Hotel Madrepatria, Yusuf Atilgan
Traduzione dal turco di Rosita D'Amora e Şemsa Gezgin
Jacabook (Calabuig)
179 pagine, 12.00 euro
|
Gestire un hotel e gestire un’istituzione, una grande impresa, un paese erano in fondo la stessa cosa. Quando un uomo comincia a conoscere se stesso, a rendersi conto delle proprie possibilità, quando capisce quali sono le vere responsabilità, vacilla, non ce la fa. È una fortuna che i governanti dei paesi non lo sappiano, altrimenti qui, in questo mondo, farebbero molti più danni di quanti ne può fare il responsabile di un hotel.
L’Hotel Madrepatria è un albergo con poche stanze vicino alla stazione ferroviaria di una piccola città dell’Anatolia. Il gestore, Zebercet, esce raramente dalla struttura, solo per andare dal sarto o dal barbiere, e passa le sue giornate seduto al bancone, mangiando i pasti preparati dalla cameriera, assegnando stanze, segnando nomi sul registro dei clienti. La monotonia del suo lavoro viene rotta dall’ingresso nella hall di una donna e dall’ossessione che questa lascerà dietro di sé dopo la sua partenza: una passione totalizzante e irrazionale che cambierà per sempre la vita dell’uomo.
Potremmo pensare a una storia d’amore, a una tresca notturna tra le camere di un albergo, e non potremmo essere più lontani dalla verità. Quello che la casa editrice Calabuig ha portato in Italia per la prima volta, a più di quarant’anni dalla sua pubblicazione, è un esempio di modernismo turco che affonda le radici in Faulkner (lo stesso Atilgan ha raccontato di aver bruciato un suo romanzo incompiuto perché troppo influenzato dalle voci di Mentre Morivo) e nasconde nella chioma il Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk, che ama Yusuf Atilgan perché è riuscito a essere uno scrittore intensamente turco usando le tecniche occidentali.
Il flusso di coscienza usato da Atilgan si avvale di frasi interminabili alternate a sentenze lapidarie e di un uso dispersivo delle parentesi, soprattutto nelle primissime pagine del racconto in cui il lettore arranca tentando di dipanare il senso delle frasi prive di punteggiatura.
Ci sono innovazioni stilistiche importanti, quindi, c’è anche una grande dose di coraggio nella descrizione cruda degli atti sessuali e la fluidità con cui l’autore concatena gesti, frammenti di dialogo, fantasie e ricordi è invidiabile. L’impressione è, però, che il protagonista riesca a malapena a scalfire l’empatia del lettore che si perde nella conta dei giorni che scandiscono il racconto e nelle cronache familiari di Zebercet, popolate di nomi che risultano allo stesso tempo estranei e fin troppo simili tra loro all’occhio di un lettore occidentale. L’alienazione e la solitudine caratterizzano quest’uomo tormentato dal pensiero di una donna sconosciuta arrivata una sera con il treno in ritardo da Ankara. Una donna di cui non sapremo mai il nome, che parte presto la mattina dopo il suo arrivo, lasciandosi alle spalle l’impronta delle labbra su un bicchiere vuoto, cinque zollette di zucchero, un asciugamano a righe, unica prova tangibile del suo passaggio nella vita di Zebercet e feticcio della sua ossessione.
Un romanzo da scrittori, più che da lettori, con un’ottima tecnica ma con una trama esile, ingarbugliata, che non parla d’amore, ma solo di ossessione. Folle, distruttiva ossessione di un’anima destinata a vacillare.
Quante bugie si dicevano al mondo. A parole, per iscritto, con le immagini o anche semplicemente tacendo.
L’Hotel Madrepatria è un albergo con poche stanze vicino alla stazione ferroviaria di una piccola città dell’Anatolia. Il gestore, Zebercet, esce raramente dalla struttura, solo per andare dal sarto o dal barbiere, e passa le sue giornate seduto al bancone, mangiando i pasti preparati dalla cameriera, assegnando stanze, segnando nomi sul registro dei clienti. La monotonia del suo lavoro viene rotta dall’ingresso nella hall di una donna e dall’ossessione che questa lascerà dietro di sé dopo la sua partenza: una passione totalizzante e irrazionale che cambierà per sempre la vita dell’uomo.
Potremmo pensare a una storia d’amore, a una tresca notturna tra le camere di un albergo, e non potremmo essere più lontani dalla verità. Quello che la casa editrice Calabuig ha portato in Italia per la prima volta, a più di quarant’anni dalla sua pubblicazione, è un esempio di modernismo turco che affonda le radici in Faulkner (lo stesso Atilgan ha raccontato di aver bruciato un suo romanzo incompiuto perché troppo influenzato dalle voci di Mentre Morivo) e nasconde nella chioma il Nobel per la Letteratura Orhan Pamuk, che ama Yusuf Atilgan perché è riuscito a essere uno scrittore intensamente turco usando le tecniche occidentali.
Il flusso di coscienza usato da Atilgan si avvale di frasi interminabili alternate a sentenze lapidarie e di un uso dispersivo delle parentesi, soprattutto nelle primissime pagine del racconto in cui il lettore arranca tentando di dipanare il senso delle frasi prive di punteggiatura.
Ci sono innovazioni stilistiche importanti, quindi, c’è anche una grande dose di coraggio nella descrizione cruda degli atti sessuali e la fluidità con cui l’autore concatena gesti, frammenti di dialogo, fantasie e ricordi è invidiabile. L’impressione è, però, che il protagonista riesca a malapena a scalfire l’empatia del lettore che si perde nella conta dei giorni che scandiscono il racconto e nelle cronache familiari di Zebercet, popolate di nomi che risultano allo stesso tempo estranei e fin troppo simili tra loro all’occhio di un lettore occidentale. L’alienazione e la solitudine caratterizzano quest’uomo tormentato dal pensiero di una donna sconosciuta arrivata una sera con il treno in ritardo da Ankara. Una donna di cui non sapremo mai il nome, che parte presto la mattina dopo il suo arrivo, lasciandosi alle spalle l’impronta delle labbra su un bicchiere vuoto, cinque zollette di zucchero, un asciugamano a righe, unica prova tangibile del suo passaggio nella vita di Zebercet e feticcio della sua ossessione.
Un romanzo da scrittori, più che da lettori, con un’ottima tecnica ma con una trama esile, ingarbugliata, che non parla d’amore, ma solo di ossessione. Folle, distruttiva ossessione di un’anima destinata a vacillare.
Quante bugie si dicevano al mondo. A parole, per iscritto, con le immagini o anche semplicemente tacendo.
A cura di Angela Bernardoni.
Yusuf Atılgan (1921-1989), uno dei maestri della letteratura turca contemporanea, ha raggiunto la celebrità grazie a due soli romanzi, Aylak Adam (L'indolente) del 1959 e Hotel Madrepatria del 1973, ai quali si aggiungono alcuni racconti e un terzo romanzo incompiuto e pubblicato postumo. Grande lettore della narrativa americana, Atılgan ha introdotto in Turchia le tecniche più sofisticate del modernismo occidentale, coniugandole con l'eredità della tradizione letteraria turca. Tradotto in diverse lingue, Atilgan viene qui presentato per la prima volta in italiano.
Rosita D’Amora insegna Lingua e Cultura Turca all'Università del Salento. Ha tradotto in italiano Sabahattin Ali e Mehmet Yashin.
Şemsa Gezgin ha tradotto in italiano Orhan Pamuk, Nedim Gürsel, Oğuz Atay, Esmahan Aykol, e in turco Italo Calvino, Cesare Pavese, Umberto Eco, Alessandro Baricco.
Nessun commento:
Posta un commento
Grazie per aver condiviso la tua opinione!