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Chirù, Michela Murgia
Einaudi
190 pagine, 18.50 euro
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Il senso di totale soddisfazione che segue la chiusura di un libro è per me talmente inusuale da rasentare il sospetto che qualcosa si nasconda dietro uno stile troppo curato e una storia molto ben orchestrata, forse un difetto che non ho notato, una ruga nello smalto brillante della confezione.
Per quanto il mio mantra in fatto di libri sia “dubita sempre”, si farebbe un torto al talento di Michela Murgia volendo cercare a tutti i costi il pelo nell'uovo: il pelo non c'è, e se anche ci fosse sarebbe tanto ben amalgamato da destare il dubbio che si tratti piuttosto di un'increspatura levigata che intarsia, anziché danneggiare, la compattezza dell'insieme.
Chirù è un libro bellissimo, un aggettivo che, devo dire, poche volte mi sento di affiancare a un'opera contemporanea italiana. La scelta di una parola dalla connotazione estetica non è casuale, perché prima di tutto Chirù è un libro dallo stile a volute, aggraziato, puro, in cui la naturalezza della prosa nasconde molto bene quello che deve essere stato un faticoso lavoro di sottile rifinitura. A sei anni dall'esordio letterario della Murgia, Accabadora, questo deciso ritorno alla narrativa ha un sapore dolce-amaro, perché il racconto, che sembra avere degli elementi autobiografici, è il ritratto di una solitudine – o, meglio, di una “infelicità con classe” – che molto ha a che fare con la percezione di se stessi e della propria femminilità.
Nel rapporto tra Eleonora, la protagonista, e Chirù, un diciottenne sveglio ma ancora “grezzo”, che aspetta solo di essere raffinato, c'è un vicendevole scambio che va oltre il rapporto pedagogico maestra-alunno (di cui Murgia saprà pur qualcosa, avendo insegnato religione per sei anni): il mentore consegna se stesso nelle mani del protegé, imparando da lui a conoscersi e a scoprirsi di volta in volta. Lo sguardo limpido di Chirù è, infatti, lo specchio attraverso cui Eleonora focalizza se stessa: una trentottenne ammantata di tristezza, arrivata forse a un punto di rottura. Chirù impara troppo velocemente l'arte della finzione, la manipolazione e il gioco di magia dell' affabulazione. Perché, anche se non c'è il retaggio folcloristico di Accabadora, sappiamo bene quale sia il potere delle parole, e come spostino l'ago della bilancia, e come definiscano le persone e le cose in modo talvolta irreparabile. Si intuisce che Murgia, pur essendo questa volta narrativamente lontana dalla Sardegna degli anni Cinquanta, non resiste comunque a un certo tipo di malia, di origine non meno atavica. Eleonora assume le sembianze di un'Eva che, dopo averla morsa, offre al giovane Adamo la mela della conoscenza: ed è una conoscenza totale, in qualche modo terribile, perché fa breccia nell'innocenza – nell'inconsapevolezza: di sé e degli altri che diventano, tutto a un tratto, delle cavie su cui esercitare potere, o fascino, per meglio dire, che non a caso si credeva una stregoneria scaturita dallo sguardo e da parole segrete.
È il lato oscuro di Chirù, quello di cui la protagoniste dice: io Chirú lo riconobbi dall’odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell’odore era lo stesso mio. La sua maturazione giunge con la consapevolezza (Chirú era un candore che mi si era affidato perché lo violassi, e il modo che io avevo scelto per farlo era regalargli consapevolezza) ed è in quel momento che qualcosa si spezza, e che Eleonora comincia a intuirne la pericolosità non solo per gli altri, ma anche e soprattutto per se stessa.
La storia delinea una visione tridimensionale delle relazioni umane e dell'umanità, intesa come insieme di fragilità, dipendenze, sensi di colpa. Michela Murgia ha una scrittura intima; nell'indagine che compie dentro il suo personaggio ritroviamo noi stessi, ci scaviamo insieme all'autrice che sembra riversare sulle pagine il doloroso fluire di un'ombra incerta del proprio destino. E gli interrogativi si susseguono, e non riguardano solo noi: nell'asettico Nord Europa, in quei paesi della Scandinavia campioni di civiltà, l'arte è ancora possibile? Nessuna censura, nessuno scontro con il potere non devitalizzano il motivo stesso dell'arte di esistere?
Qui, dove è stata abolita la valorizzazione dell'individualità nell'intento di non creare disuguaglianze, il tasso di suicidi e del consumo di alcool è incredibilmente alto. Un ribaltamento dell'idea della società svedese per me del tutto inedito, che lancia dubbi (vagamente Bradburyani, in verità) sul fatto che l'appianamento delle differenze che generano infelicità possa, a tutti gli effetti, guarirci dai mali sociali.
Chirù è un romanzo che risplende di luce propria, bello appunto perché ammaliante, stilisticamente curato, ma bello anche perché si intuisce il percorso privato che sembra collegare Murgia al libro, con una sensibilità ed eleganza che oserei definire femminile e che raggiunge una maturità completa oltre la quale è possibile scrivere solo capolavori.
Voto: ![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEisT2LQaGKOAV9eDI6lfgrZ5NY0wDVYkl3NHedPHMpyLCcA7Y7VTW5b-iHiCRYYGTjA_EwSXFeqJ3rFafdaf-W6YVjXMX2GHLRCIenSTNJsHTI8Wxfv0rmezSIx6Z63K-Qpz4ZlCL_gQJE/s1600/pieno.png)
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Anche la tua recensione in quanto a grazia non vi scherza! Mi ritrovo molto in ciò che hai scritto. Libro davvero bello. Recensione altrettanto. Complimenti
RispondiEliminaGrazie mille :)
EliminaMai letto niente della Murgia (io e la narrativa italiana contemporanea ci frequentiamo poco), ma leggo cose molto belle su questo suo nuovo lavoro.
RispondiEliminaIl tuo "bellissimo", a quanto dici di rara concessione, mi ha definitivamente convinta :)
Io invece leggo un discreto numero di italiani per via del blog ed è diventato troppo raro dire di un libro che sia senza sbavature. Chirù, invece, è proprio bello. E' scritto bene, ma non ha uno stile farraginoso, forzato, dietro cui si capisce c'è uno sforzo titanico. Come dire, "il trucco c'è, ma non si vede". Sono sicura piacerà anche a te :)
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