Per via dell'immaginario che ho sempre avuto del giornalismo culturale, Non scrivere di me diventa l'espressione più rappresentativa di un'incontenibile invidia – la mia, ovviamente. Inevitabile che si veda l'aspetto più romantico del mestiere – la conoscenza diretta con i maggiori scrittori contemporanei, i viaggi di lavoro –, malgrado questo, scrive Livia Manera Sambuy, non sia ormai lo stesso dalla crisi economica del 2008. “Mi svegliavo con l'angoscia che il mio lavoro di giornalista letteraria non avesse più valore”, e da qui la decisione di dare una svolta alla propria vita e trasferirsi a Parigi.
Più che di cambiamento, è forse l'esigenza di una evoluzione a trascinare l'autrice in una città dove non conosce nessuno e a scrivere un libro che esula i modelli del giornalismo e della critica letteraria.
È una nuova forma di racconto: un diario dove i ritratti di scrittori come Mavis Gallant e Philip Roth si allacciano a riflessioni e interrogativi intimi, dove ci si addentra nella sfera personale per poi rendersi conto della straordinarietà di queste anime. Tormentate, arroganti, fuori dagli schemi, generose, il compendio di personalità è tanto vario da lasciare il lettore attonito nel tentativo di adeguarsi, a ogni capitolo, al nuovo personaggio che si trova davanti. Sullo sfondo, città come Parigi e New York, immerse in una dimensione incantata, vengono descritte non solo attraverso gli autori protagonisti, ma anche grazie ai libri che sono menzionati. Il rapporto tra metropoli e narrazione è indissolubile, e il paesaggio urbano è solo l'espressione fisica di uno stile di vita.
Raccontare la letteratura anglo-americana così, nell'intreccio di vita e scrittura, lascia spaesati per la potenzialità inespressa di ciò che si sarebbe potuto dire e che si è, per rispetto e riservatezza, taciuto.
Il libro sedimenta nel cuore anche per questo, e inoltre per la capacità di diventare, nonostante lo stretto collegamento con chi l'ha scritto, una creatura autonoma, un insieme di voci distinte che si rifrangono nella bolla implosa della letteratura contemporanea.
Livia Manera Sambuy si è prestata a rispondere con immensa cortesia ad alcune domande che le ho posto. La ringrazio calorosamente sperando che questa intervista possa raccontare di “Non scrivere di me” più di quello che sono stata capace di esprimere a parole.
“Non scrivere di me” è il duro monito che Le lanciò Philip Roth dopo una conversazione intima al telefono. Eppure, scrivere è un'esigenza, un dovere morale, forse anche una condanna. Qual è il suo rapporto con la scrittura e quale crede sia quello che ha con essa Philip Roth?
Non posso parlare per Roth, ovviamente. So che per lui scrivere è stata una necessità ossessiva, e che liberarsi da questa ossessione poco prima degli ottant’anni gli ha dato sollievo. Quindi sì, forse in qualche modo è stata una condanna che si è inflitto da solo. Ma non lo è per chiunque? Per me scrivere è semplicemente il mio mestiere: una cosa che ho imparato a fare con molti anni di lavoro, che a volte mi dà soddisfazione, a volte mi lascia frustrata, ma quasi sempre mi fa scoprire cose sugli altri e su me stessa che non avrei saputo immaginare altrimenti.
Non pensa che scrivere sia la forma più alta di egocentrismo?
Dipende da quello che si scrive. Se il soggetto è il proprio io, esiste certamente questo pericolo. E il narcisismo è senza dubbio l’anima di ciò che chiamiamo arte. Ma mi sembra che ci siano al mondo molti altri soggetti, argomenti che gli scrittori seri sanno affrontare con umiltà mettendo il proprio io da parte.
Ho l'impressione che questo libro sia stata una summa, un “tirar di conti”, ad un certo punto della Sua vita, con la carriera professionale e con il proprio percorso personale. È così? È stata un'esperienza catartica?
È stato un modo di assolvere un dovere verso me stessa. Un modo di riassumere il senso che ha avuto per me leggere tanti libri e incontrare tanti scrittori. Di rileggere la mia vita attraverso questo filtro. Ed è stata un’esperienza difficile, proprio perché molto personale. Ho scoperto che quando avevo reticenza ad affrontare un argomento, quello era l’argomento che andava affrontato. Un po’ come misurarsi con un mostro, anche se non un grande mostro. La sincerità sulla pagina ha una grande forza. Ma cercarla costa fatica.
All'interno del libro emergono ritratti di autori fuori dal comune, quasi romanzeschi per tormenti, idiosincrasie e per un modo anticonformista di stare al mondo. Per diventare grandi scrittori è evidente non sia sufficiente rientrare nel quadro della “normalità”, servono piuttosto una prospettiva diversa e l'evasione dall'ordinarietà; non tanto, forse nello stile di vita, quanto nel mondo di pensarla. È d'accordo con questa affermazione? In merito agli autori da Lei descritti, quale le sembra sia il confine tra persona e personaggio?
Loro sono persone. Personaggio lo diventano, forse, nei miei racconti, o in quelli di altri. Quanto all’essere fuori dalla norma, è una cosa che nessuno di loro ha cercato. Nessun artista è “normale”.
Lei accenna alla difficoltà di documentarsi su uno scrittore che si è amato, come Salinger, dato il rischio di rimanere delusi dal lato umano di maestri che tendiamo a divinizzare. Qual è l'autore citato in Non scrivere di me che, più di tutti, ha contravvenuto alle aspettative che si era creata?
Nessuno. Ognuno di loro mi ha dato qualcosa. Altrimenti non ne avrei scritto. Con l’eccezione, forse di David Foster Wallace e James Purdy, che erano persone molto estreme e difficili da “raggiungere”, tutti i personaggi del mio libro sono persone a cui sono stata o sono tutt’ora molto legata sul piano emotivo.
In questo libro c'è moltissimo della Sua vita e del rapporto con la letteratura e i libri che ne hanno caratterizzato la quotidianità. A Parigi, dove, racconta, è andata in una sorta di “esilio”, ha incontrato Mavis Gallant, i cui racconti hanno accompagnato lo “spaesamento” di vivere in una città senza conoscerne la lingua. In che modo Parigi si è intrecciata con la letteratura, in quel primo periodo? E che ruolo hanno avuto i libri, di volta in volta, a New York e a Milano? L'esperienza di lettura sarebbe stata la stessa, se fossero stati letti dentro ad altri scenari?
La letteratura, come diceva Mavis, è un ponte. Con lei ho condiviso una certa diffidenza per gli aspetti più presuntuosi e magari fossilizzati della cultura francese, e l’amore per la bellezza di questa città. Gli autori americani sono invece indissolubili dal mio rapporto con New York. Ovunque, a Manhattan, la città mi parla di loro. Non l’ho scoperta attraverso i loro occhi, perché ci ho vissuto in prima persona. Ma il suo ricordo passa senza dubbio per il filtro di una certa letteratura che mi ha sempre accompagnata.
Durante la conversazione con David Foster Wallace, questo dice che la narrativa che gli interessa è quella che si confronta con i possibili significati dell'American Life, tanto giustamente disprezzata dal resto del mondo. Il vostro incontro è avvenuto in un McDonald's. Questo disprezzo dell'americanità per Wallace contemplava, a suo avviso, anche un disprezzo di se stesso?
Wallace era un uomo terribilmente tormentato. Credo che a tratti si vedesse per il genio che era, e che a tratti, sì, si disprezzasse. Ma non in quanto americano. In quanto essere umano, fallace come lo siamo tutti.
Judith Thurman afferma invece: “ho pensato a quanto spesso mi senta oppressa da un senso di inautenticità, persino adesso, parlando con te, non riesco ad accorciare la distanza tra il mio vero io e quello falso, che è quello che ascolto esibirsi”. Senza accennare a querelle decennali di critica letteraria sul rapporto tra finzione e realtà, quanta autenticità c'è nella letteratura, quanto ha potuto constatare ce ne fosse nei libri degli autori che ha conosciuto e, soprattutto, quanto è importante questa problematica per gli scrittori americani?
Ma questa è una domanda folle! Ci vorrebbero volumi interi per rispondere. L’unica cosa che posso dire è che un’opera letteraria è vera letteratura quando scaturisce da un’esigenza autentica, quando è necessaria. Altrimenti è intrattenimento. O virtuosismo. L’ “urgenza” non mente: è uno spartiacque molto preciso. Di qua ci stanno i libri necessari, di là quelli di cui si può fare a meno.
“La letteratura è niente di più niente di meno che una questione di vita o di morte”, per ritornare a Mavis Gallant. È anche un impegno civile?
Per alcuni sì. Franzen, per esempio, Roth, senz’altro. DeLillo. E per tutti gli scrittori francesi fedeli alla tradizione dell’écrivain engagé. Ma esiste anche una letteratura che può dirsi tale senza essere fondata sull’impegno civile, o morale. Come dice Nicole Krauss, non leggiamo Philip Roth per la sua saggezza morale, ma per la sua ambiguità morale.
Fare giornalismo come lo ha fatto Lei, instaurando poi una relazione personale con molti di questi scrittori, significa anche porsi nei confronti dell'intervistato come una sorta di psicologa, intuendone la personalità, rispettando i limiti e cercando di trarre il meglio e, forse, anche un po' del peggio di quella persona. Qual è la ricetta per fare una buona intervista?
Conoscere bene l’opera di un autore. Documentarsi a fondo su di lui. Preparare con cura le domande. Poi metterle da parte e dimenticarle. E a quel punto, semplicemente, ascoltare.
Nessun commento:
Posta un commento
Grazie per aver condiviso la tua opinione!