lunedì 30 novembre 2015

Recensione: Ultimo Piano di Francesco D'Isa



Ultimo piano, Francesco D'Isa
Imprimateur
208 pagine, 16.00 euro
In un grattacielo di quarantadue piani di una Varsavia futuristica, ha sede l'impero pornografico di , la Perverse Angels S.P.A. Tra i criminali e gli artisti con cui ha giornalmente ha a che fare, spiccano due fratelli, entrambi di nome Claude: lei è un’attrice, lui un regista. Quest’ultimo, in particolare, medita su un’opera che potrebbe rivoluzionare non solo il porno, ma il mondo intero: il Porno Totale, appunto. Per scoprire la genesi e le conseguenze di questo folle progetto, rivolgetevi a Francesco d'Isa e al suo Ultimo Piano (o porno totale) pubblicato da Imprimatur Edizioni.
Franz Spiegelmann

Non si scandalizzino i puri di cuore: questo, a dispetto delle apparenze, non è un romanzo pornografico. Naturalmente il sesso è un argomento centrale, ma durante la lettura non si potrà che notare che alcuni dei romanzi che fanno furore ultimamente nelle librerie sono molto più pornografici di questo. A Francesco D’Isa, infatti, non sembra interessare turbare il lettore con contenuti forti - pressochè assenti: le scene “compromettenti” si potrebbero contare sulle dita di una mano - quanto farlo riflettere su un mondo che, per quanto si cerchi di dimenticare e di reprimere, esiste, non conosce crisi, ed è capace di entrare prepotentemente nell’intimità di una persona. Una delle scene più intense del romanzo - un’intervista all’attrice Claude in un talkshow strappalacrime e populista - verte proprio sull’ipocrisia che circonda questo ambiente: il considerare il porno una materia disdicevole, una vera e propria industria criminale, non fa altro che renderlo più forte. I protagonisti del romanzo, invece, lo considerano un lavoro come un altro, con i suoi pregi e i suoi difetti. Anche per questo difficilmente arrossirete di vergogna durante la lettura: Spiegelmann - la voce narrante - sta semplicemente raccontando la sua quotidianità.
Una quotidianità che viene distrutta dal porno totale. Dalla sua introduzione il romanzo, che prima procedeva lentamente e - all’apparenza - senza una direzione precisa, diventa più stratificato ed avvincente. Nel rapido susseguirsi di eventi, inoltre, l’autore trova anche spazio per inserire riflessioni sul desiderio, sull’educazione sentimentale e sessuale delle persone, e su come un'opera del genere potrebbe influire su questi aspetti. Non bisogna tralasciare nemmeno che sono molti coloro che vorrebbero la proprietà del film rivoluzionario: si instaura quindi un gioco di potere e di schieramenti opposti che si protrarrà fino alla - forse prematura - conclusione.

Approfondendo quest’ultimo aspetto, spiace trovare che l’ingegno di Francesco d’Isa non sempre è supportato da un editing accurato. Ultimo piano fatica, infatti, a prendere ritmo, in una presentazione dell’ambiente protratta troppo a lungo; di conseguenza, la parte dedicata al film sembra scorrere troppo velocemente, verso quello che è a tutti gli effetti - riconosciuto persino da Spiegelmann nella finzione - un deus ex machina. Considerata la breve durata dell'opera, non sono difetti di poco conto. Non sarebbe inoltre dispiaciuto vedere una cura dei personaggi proporzionata a quella per l'ambientazione. Sono ben pochi i personaggi tridimensionali. Nella maggior parte dei casi il lettore si trova di fronte a delle machiette; pittoresche, ma pur sempre macchiette.
La poca precisione dell’editing si nota anche nello stile dell’autore. Pur essendo personale, e con un pizzico di ironia che rende la narrazione più leggera, anche lui va soggetto ad inutili ripetizioni o a metafore azzardate. Capita a tutti gli scrittori, sopratutto nelle prime stesure, quelle che rimangono nascoste agli occhi del lettore; la figura dell’editor ha proprio lo scopo di eliminare queste storture, o quantomeno minimizzarle. L’editing è quello che più distingue un libro pubblicato in maniera “tradizionale” e uno autopubblicato; il lettore accorto nota immediatamente la differenza. Non è un segnale positivo se chi scrive ha creduto a lungo che Ultimo piano fosse autopubblicato, e solo una successiva verifica le ha permesso di sapere che in realtà d’Isa era stato seguito da una editor.

Questo spiega il voto finale, non esattamente positivo. Francesco d’Isa ha del potenziale artistico non indifferente - sua è anche la copertina dell’opera: ha molto da dire al pubblico, e merita più notorietà. Sopratutto, merita un editing che gli sappia rendere giustizia. Nel frattempo, se l'argomento non vi mette soggezione, la lettura di Ultimo piano (o Porno Totale) è consigliata: vi potrebbe stupire.


Voto: 



giovedì 26 novembre 2015

Video: Book Wishlist Natalizia


Ciao a tutti! Avete già cominciato a compilare una wishlist da lasciare casualmente in giro per casa man mano che si avvicina il Natale? Io no, e infatti questo video è assolutamente disinteressato ;)
Ovviamente - come succede sempre - ho dimenticato un titolo, che vi lascio qui: On Writing di Stephen King, nella nuova traduzione Frassinelli a cura di Giovanni Arduino.
Se volete suggerire qualche altro libro, sono tutta orecchie *Q*


mercoledì 25 novembre 2015

Recensione: Chirù di Michela Murgia



Chirù, Michela Murgia
Einaudi
190 pagine, 18.50 euro
Il senso di totale soddisfazione che segue la chiusura di un libro è per me talmente inusuale da rasentare il sospetto che qualcosa si nasconda dietro uno stile troppo curato e una storia molto ben orchestrata, forse un difetto che non ho notato, una ruga nello smalto brillante della confezione.
Per quanto il mio mantra in fatto di libri sia “dubita sempre”, si farebbe un torto al talento di Michela Murgia volendo cercare a tutti i costi il pelo nell'uovo: il pelo non c'è, e se anche ci fosse sarebbe tanto ben amalgamato da destare il dubbio che si tratti piuttosto di un'increspatura levigata che intarsia, anziché danneggiare, la compattezza dell'insieme.
Chirù è un libro bellissimo, un aggettivo che, devo dire, poche volte mi sento di affiancare a un'opera contemporanea italiana. La scelta di una parola dalla connotazione estetica non è casuale, perché prima di tutto Chirù è un libro dallo stile a volute, aggraziato, puro, in cui la naturalezza della prosa nasconde molto bene quello che deve essere stato un faticoso lavoro di sottile rifinitura. A sei anni dall'esordio letterario della Murgia, Accabadora, questo deciso ritorno alla narrativa ha un sapore dolce-amaro, perché il racconto, che sembra avere degli elementi autobiografici, è il ritratto di una solitudine – o, meglio, di una “infelicità con classe” – che molto ha a che fare con la percezione di se stessi e della propria femminilità.
Nel rapporto tra Eleonora, la protagonista, e Chirù, un diciottenne sveglio ma ancora “grezzo”, che aspetta solo di essere raffinato, c'è un vicendevole scambio che va oltre il rapporto pedagogico maestra-alunno (di cui Murgia saprà pur qualcosa, avendo insegnato religione per sei anni): il mentore consegna se stesso nelle mani del protegé, imparando da lui a conoscersi e a scoprirsi di volta in volta. Lo sguardo limpido di Chirù è, infatti, lo specchio attraverso cui Eleonora focalizza se stessa: una trentottenne ammantata di tristezza, arrivata forse a un punto di rottura. Chirù impara troppo velocemente l'arte della finzione, la manipolazione e il gioco di magia dell' affabulazione. Perché, anche se non c'è il retaggio folcloristico di Accabadora, sappiamo bene quale sia il potere delle parole, e come spostino l'ago della bilancia, e come definiscano le persone e le cose in modo talvolta irreparabile. Si intuisce che Murgia, pur essendo questa volta narrativamente lontana dalla Sardegna degli anni Cinquanta, non resiste comunque a un certo tipo di malia, di origine non meno atavica. Eleonora assume le sembianze di un'Eva che, dopo averla morsa, offre al giovane Adamo la mela della conoscenza: ed è una conoscenza totale, in qualche modo terribile, perché fa breccia nell'innocenza – nell'inconsapevolezza: di sé e degli altri che diventano, tutto a un tratto, delle cavie su cui esercitare potere, o fascino, per meglio dire, che non a caso si credeva una stregoneria scaturita dallo sguardo e da parole segrete.
È il lato oscuro di Chirù, quello di cui la protagoniste dice: io Chirú lo riconobbi dall’odore di cose marcite che gli veniva da dentro, perché quell’odore era lo stesso mio. La sua maturazione giunge con la consapevolezza (Chirú era un candore che mi si era affidato perché lo violassi, e il modo che io avevo scelto per farlo era regalargli consapevolezza) ed è in quel momento che qualcosa si spezza, e che Eleonora comincia a intuirne la pericolosità non solo per gli altri, ma anche e soprattutto per se stessa.
La storia delinea una visione tridimensionale delle relazioni umane e dell'umanità, intesa come insieme di fragilità, dipendenze, sensi di colpa. Michela Murgia ha una scrittura intima; nell'indagine che compie dentro il suo personaggio ritroviamo noi stessi, ci scaviamo insieme all'autrice che sembra riversare sulle pagine il doloroso fluire di un'ombra incerta del proprio destino. E gli interrogativi si susseguono, e non riguardano solo noi: nell'asettico Nord Europa, in quei paesi della Scandinavia campioni di civiltà, l'arte è ancora possibile? Nessuna censura, nessuno scontro con il potere non devitalizzano il motivo stesso dell'arte di esistere?
Qui, dove è stata abolita la valorizzazione dell'individualità nell'intento di non creare disuguaglianze, il tasso di suicidi e del consumo di alcool è incredibilmente alto. Un ribaltamento dell'idea della società svedese per me del tutto inedito, che lancia dubbi (vagamente Bradburyani, in verità) sul fatto che l'appianamento delle differenze che generano infelicità possa, a tutti gli effetti, guarirci dai mali sociali.
Chirù è un romanzo che risplende di luce propria, bello appunto perché ammaliante, stilisticamente curato, ma bello anche perché si intuisce il percorso privato che sembra collegare Murgia al libro, con una sensibilità ed eleganza che oserei definire femminile e che raggiunge una maturità completa oltre la quale è possibile scrivere solo capolavori.

Voto: 


martedì 24 novembre 2015

Recensione: I cavalieri del Nord di Matteo Strukul



I cavalieri del Nord, Matteo Strukul
Multiplayer
456 pagine, 16.90 euro
I Cavalieri del Nord del padovano Matteo Strukul, pubblicato nella collana Multipop della

casa editrice Multiplayer, è la ricostruzione di un passato lontano che poggia su solide basi storiche. In ogni pagina si riconosce la mole di ricerca che l’autore ha approntato, sia sul campo che attraverso la vasta bibliografia citata nella nota finale.
Se volessi fare un paragone azzardato, direi che Strukul è per il romanzo storico italiano quello che è stata dieci anni fa Licia Troisi per il fantasy, con la pubblicazione delle sue Cronache del Mondo Emerso. Quando Nihal è sbarcata nel panorama editoriale italiano, in tanti hanno storto il naso, attaccando lo stile della scrittrice, ma soprattutto impugnando alta la bandiera del il fantasy italiano non esiste. Tuttavia i numeri e il largo consenso ottenuto nella fascia più giovane del pubblico hanno dovuto ridimensionare le critiche.

Dopo il pulp della trilogia che vede protagonista Mila Zago e il thriller storico de La Giostra dei Fiori Spezzati (Mondadori Omnibus, 2014), Strukul si lancia quindi sulle orme di Evangelisti e Manfredi, trasportandoci nell’universo magico e crudele delle crociate del Nord. Una storia che, per stile e potenza visiva, avrebbe forse trovato il suo pieno sviluppo, più che tra le pagine di un romanzo, in quelle colorate di una graphic novel.

La narrazione si apre su un mondo bianco di neve e rosso di sangue, nel mezzo di una battaglia dove il protagonista, il giovane Wolf, dà prova del suo valore e della sua umanità, proprio come ci si aspetterebbe dall’eroe buono di un romanzo del genere.
Le pecche di questo romanzo, infatti, sono principalmente due: i personaggi sono puri archetipi del romanzo storico, che agiscono esattamente come ci si aspetterebbe da loro, nel bene e nel male, i cattivi sono cattivi, i buoni sono buoni e quelli che fingono di essere buoni ma in realtà sono cattivi lo lasciano intuire al lettore alle prime frasi. Questo dipende soprattutto dalla scrittura, molto didascalica, dell’autore. Non cercate dello show don’t tell tra queste pagine, altrimenti finirete per arrancare tra periodi al limite dell’esercizio di stile e valanghe di aggettivi.

Per i due motivi sopra esposti, il romanzo è molto buono per i lettori più giovani che si avvicinano per la prima volta al romanzo storico, mentre lascia un sentore di già visto in lettori maturi ed abituati al genere, più difficili da affascinare con lunghe descrizioni di foreste e occhi languidi. Nonostante la buona scorrevolezza del testo, aiutata dall’impaginazione ampia e dai caratteri grandi, se avessi collaborato all’editing dell’opera avrei probabilmente tagliato un centinaio di pagine, in modo da permettere al lettore uno sforzo di immaginazione, anziché dipingergli davanti agli occhi ogni singola scena come se si trattasse della sceneggiatura per un fumettista particolarmente privo di intraprendenza.

Un mezzo punticino in più va accreditato alla copertina, vera opera di appagamento visivo della poco più che ventenne Valeria Brevigliero che ha sbaragliato gli altri partecipanti al contest indetto da Multiplayer per trovare la copertina di questo libro.

Voto: 

A cura di Angela Bernardoni

lunedì 23 novembre 2015

Recensione: Uomini senza donne di Murakami



Uomini senza donne, Haruki Murakami
Einaudi
228 pagine, 19.00 euro
Se questo è Murakami, non capisco perché i lettori lo osannino.
Uomini senza donne è una raccolta di sette racconti brevi del tutto autonomi l'uno dall'altro, ma accomunati dalla ricorrenza delle tematiche. Anche i personaggi, sebbene diversi, non sono che sagome ripetitive e stereotipate: uomini inetti e donne che nella maggior parte delle storie vengono dipinte in modo del tutto negativo.

Drive my car apre la serie di racconti con una storia di solitudini che si incrociano, quella di Kafuku, attore che ha perso la moglie, e Misaki, la sua autista. Il primo è il genere di uomo che accetta l'infedeltà della moglie, non le dice di essere al corrente dei tradimenti di lei perché ha paura di perderla, finché non è costretto a dirle addio quando lei muore a causa di una malattia. Misaki non è altro che il motore dei ricordi di lui, che si snodano a partire dall'impossibilità di superare la perdita di una persona che lo ha demolito. La dipendenza affettiva, non risolta, è una tematica portante di tutte le quaranta pagine, insieme alla spiegazione semplicista dell'infedeltà come opportunità di evadere dal coinvolgimento passionale per approcciarsi, senza alcun motivo, a un altro partner privo di qualsiasi qualità.

Segue Yesterday, storia di un'amicizia ai tempi dell'università che prende il titolo dalla famosissima canzone dei Beatles che uno dei protagonisti tenta di tradurre in giapponese. La cosa paradossale è che Kitaru (il "traduttore", che non riesce ad entrare all'università) tenta di convincere Tanimura a fidanzarsi con Erika, ragazza che Kitaru conosce fin dalle elementari e con il quale è stato fidanzato fino al fallimento del suo esame di ammissione all'università. I tre si perdono di vista, ma Tanimura ed Erika si rivedono dopo anni e si raccontano gli eventi successivi al loro primo incontro. Anche questa è una storia di solitudine e mancate coincidenze.

Ci sono persone che, pur essendo prive di particolari tortuosità e inquietudini, riescono a complicarsi la vita in maniera sorprendente. Inizia così Organo indipendente, tipica storia del donnaiolo che vive numerose relazioni in contemporanea ma perde la sua verve quando incontra una donna che gli fa perdere la testa. Detto in tutta franchezza, quella che, a leggere sul web, è la storia che i più hanno apprezzato, a me sembra davvero banale, tanto più nella parte centrale e finale, compresa la storia dell'organo indipendente.

Il capitolo successivo è ispirato alle Mille e una notte, e prende il nome dalla sua protagonista, ovvero Shahrazād. Questa fa da infermiera ad Habara e con lui intraprende una relazione sessuale, convinta di esser stata, nella vita precedente, una lampreda (una specie di anguilla). Se dovessimo spiegarlo secondo la nostra cultura, la lampreda è l'equivalente della sanguisuga, ed è un po' il modo con cui viene dipinta la donna. Ovviamente l'uomo non è altro che "vittima" della libido di lei, tanto più per il fatto che non trova esaltante il sesso, ma lo ritiene "un rapporto forse non puramente meccanico, ma nemmeno coinvolgente". Inutile dire che qualcosa cambia la situazione.

Kino è la storia dell'omonimo proprietario di un bar, che sta per ottenere il divorzio e che vede la sua vita alterata da una serie di eventi surreali. Ma nonostante l'elemento "magico", forse è una di quelle storie di cui non sentiremmo la mancanza.

Poi c'è Samsa innamorato, esattamente il protagonista de La metamorfosi di Kafka, in una sorta di seguito del racconto dello scrittore boemo dove Gregor impara ad essere umano. Murakami qui non regge il confronto con l'originale, rischiando di cadere, in alcuni punti, nella banalità e ridondanza più profonda.

In ultimo, il racconto che dà il titolo alla raccolta, nel quale un uomo viene a sapere che l'ex fidanzata è morta suicida. La notizia lo porta a ripensare alla loro storia e a farsi una teoria sugli «uomini senza donne», con i quali non intende i single, ma coloro che hanno conosciuto l'amore per una donna che poi hanno perso, perché scappata o morta. La sua definizione di questo tipo umano è esasperante, tanto più per il fatto che il protagonista pare annullare tutto quello che c'è stato prima e dopo la donna morta, nel contempo auto-celebrandosi attraverso ciò che lei pensava di lui.

Lo stile di Murakami è limpido e aggraziato nella scelta della "metrica", ma sembra qui che questo sia il suo unico pregio rispetto a storie che non hanno nessuna fine, lasciano tutto in sospeso e in molti casi si rivelano prive di significato. Non c'è alcun "commento" anche quando il racconto è in prima persona: sembra quasi che i personaggi giochino a fare il narratore interno il cui punto di vista è esterno, creando una sorta di straniamento che ricorda la narrativa verista.
Certamente, c'è una visione fallocentrica della società, nella quale all'uomo è giustificata la vita dissoluta, mentre le donne sono esseri capaci di tradire, mentire e, soprattutto, rovinare la vita. La morale di tutte le storie sembrerebbe essere che gli uomini starebbero meglio senza le donne, perché creano nella loro vita complicazioni insormontabili e interdipendenze. Sembra quasi suggerire, alla fine di tutto, che la scelta migliore sia la vita monacale o priva di alcun impulso verso il sesso femminile.
In conclusione, non ho apprezzato molto questa raccolta, sebbene non si possa dire che Murakami non scriva bene. Il problema sono i contenuti, demodé e gettati su foglio un po' a casaccio. Mi sarei aspettata di meglio.

Voto: 




venerdì 20 novembre 2015

"Non scrivere di me": intervista a Livia Manera Sambuy



Per via dell'immaginario che ho sempre avuto del giornalismo culturale, Non scrivere di me diventa l'espressione più rappresentativa di un'incontenibile invidia – la mia, ovviamente. Inevitabile che si veda l'aspetto più romantico del mestiere – la conoscenza diretta con i maggiori scrittori contemporanei, i viaggi di lavoro –, malgrado questo, scrive Livia Manera Sambuy, non sia ormai lo stesso dalla crisi economica del 2008. “Mi svegliavo con l'angoscia che il mio lavoro di giornalista letteraria non avesse più valore”, e da qui la decisione di dare una svolta alla propria vita e trasferirsi a Parigi.
Più che di cambiamento, è forse l'esigenza di una evoluzione a trascinare l'autrice in una città dove non conosce nessuno e a scrivere un libro che esula i modelli del giornalismo e della critica letteraria.
È una nuova forma di racconto: un diario dove i ritratti di scrittori come Mavis Gallant e Philip Roth si allacciano a riflessioni e interrogativi intimi, dove ci si addentra nella sfera personale per poi rendersi conto della straordinarietà di queste anime. Tormentate, arroganti, fuori dagli schemi, generose, il compendio di personalità è tanto vario da lasciare il lettore attonito nel tentativo di adeguarsi, a ogni capitolo, al nuovo personaggio che si trova davanti. Sullo sfondo, città come Parigi e New York, immerse in una dimensione incantata, vengono descritte non solo attraverso gli autori protagonisti, ma anche grazie ai libri che sono menzionati. Il rapporto tra metropoli e narrazione è indissolubile, e il paesaggio urbano è solo l'espressione fisica di uno stile di vita.
Raccontare la letteratura anglo-americana così, nell'intreccio di vita e scrittura, lascia spaesati per la potenzialità inespressa di ciò che si sarebbe potuto dire e che si è, per rispetto e riservatezza, taciuto.
Il libro sedimenta nel cuore anche per questo, e inoltre per la capacità di diventare, nonostante lo stretto collegamento con chi l'ha scritto, una creatura autonoma, un insieme di voci distinte che si rifrangono nella bolla implosa della letteratura contemporanea.

Livia Manera Sambuy si è prestata a rispondere con immensa cortesia ad alcune domande che le ho posto. La ringrazio calorosamente sperando che questa intervista possa raccontare di “Non scrivere di me” più di quello che sono stata capace di esprimere a parole.


“Non scrivere di me” è il duro monito che Le lanciò Philip Roth dopo una conversazione intima al telefono. Eppure, scrivere è un'esigenza, un dovere morale, forse anche una condanna. Qual è il suo rapporto con la scrittura e quale crede sia quello che ha con essa Philip Roth?

Non posso parlare per Roth, ovviamente. So che per lui scrivere è stata una necessità ossessiva, e che liberarsi da questa ossessione poco prima degli ottant’anni gli ha dato sollievo. Quindi sì, forse in qualche modo è stata una condanna che si è inflitto da solo. Ma non lo è per chiunque? Per me scrivere è semplicemente il mio mestiere: una cosa che ho imparato a fare con molti anni di lavoro, che a volte mi dà soddisfazione, a volte mi lascia frustrata, ma quasi sempre mi fa scoprire cose sugli altri e su me stessa che non avrei saputo immaginare altrimenti.

Non pensa che scrivere sia la forma più alta di egocentrismo?

Dipende da quello che si scrive. Se il soggetto è il proprio io, esiste certamente questo pericolo. E il narcisismo è senza dubbio l’anima di ciò che chiamiamo arte. Ma mi sembra che ci siano al mondo molti altri soggetti, argomenti che gli scrittori seri sanno affrontare con umiltà mettendo il proprio io da parte.

Ho l'impressione che questo libro sia stata una summa, un “tirar di conti”, ad un certo punto della Sua vita, con la carriera professionale e con il proprio percorso personale. È così? È stata un'esperienza catartica?

È stato un modo di assolvere un dovere verso me stessa. Un modo di riassumere il senso che ha avuto per me leggere tanti libri e incontrare tanti scrittori. Di rileggere la mia vita attraverso questo filtro. Ed è stata un’esperienza difficile, proprio perché molto personale. Ho scoperto che quando avevo reticenza ad affrontare un argomento, quello era l’argomento che andava affrontato. Un po’ come misurarsi con un mostro, anche se non un grande mostro. La sincerità sulla pagina ha una grande forza. Ma cercarla costa fatica.

All'interno del libro emergono ritratti di autori fuori dal comune, quasi romanzeschi per tormenti, idiosincrasie e per un modo anticonformista di stare al mondo. Per diventare grandi scrittori è evidente non sia sufficiente rientrare nel quadro della “normalità”, servono piuttosto una prospettiva diversa e l'evasione dall'ordinarietà; non tanto, forse nello stile di vita, quanto nel mondo di pensarla. È d'accordo con questa affermazione? In merito agli autori da Lei descritti, quale le sembra sia il confine tra persona e personaggio?

Loro sono persone. Personaggio lo diventano, forse, nei miei racconti, o in quelli di altri. Quanto all’essere fuori dalla norma, è una cosa che nessuno di loro ha cercato. Nessun artista è “normale”.

Lei accenna alla difficoltà di documentarsi su uno scrittore che si è amato, come Salinger, dato il rischio di rimanere delusi dal lato umano di maestri che tendiamo a divinizzare. Qual è l'autore citato in Non scrivere di me che, più di tutti, ha contravvenuto alle aspettative che si era creata?

Nessuno. Ognuno di loro mi ha dato qualcosa. Altrimenti non ne avrei scritto. Con l’eccezione, forse di David Foster Wallace e James Purdy, che erano persone molto estreme e difficili da “raggiungere”, tutti i personaggi del mio libro sono persone a cui sono stata o sono tutt’ora molto legata sul piano emotivo.

In questo libro c'è moltissimo della Sua vita e del rapporto con la letteratura e i libri che ne hanno caratterizzato la quotidianità. A Parigi, dove, racconta, è andata in una sorta di “esilio”, ha incontrato Mavis Gallant, i cui racconti hanno accompagnato lo “spaesamento” di vivere in una città senza conoscerne la lingua. In che modo Parigi si è intrecciata con la letteratura, in quel primo periodo? E che ruolo hanno avuto i libri, di volta in volta, a New York e a Milano? L'esperienza di lettura sarebbe stata la stessa, se fossero stati letti dentro ad altri scenari?

La letteratura, come diceva Mavis, è un ponte. Con lei ho condiviso una certa diffidenza per gli aspetti più presuntuosi e magari fossilizzati della cultura francese, e l’amore per la bellezza di questa città. Gli autori americani sono invece indissolubili dal mio rapporto con New York. Ovunque, a Manhattan, la città mi parla di loro. Non l’ho scoperta attraverso i loro occhi, perché ci ho vissuto in prima persona. Ma il suo ricordo passa senza dubbio per il filtro di una certa letteratura che mi ha sempre accompagnata.

Durante la conversazione con David Foster Wallace, questo dice che la narrativa che gli interessa è quella che si confronta con i possibili significati dell'American Life, tanto giustamente disprezzata dal resto del mondo. Il vostro incontro è avvenuto in un McDonald's. Questo disprezzo dell'americanità per Wallace contemplava, a suo avviso, anche un disprezzo di se stesso?

Wallace era un uomo terribilmente tormentato. Credo che a tratti si vedesse per il genio che era, e che a tratti, sì, si disprezzasse. Ma non in quanto americano. In quanto essere umano, fallace come lo siamo tutti.

Judith Thurman afferma invece: “ho pensato a quanto spesso mi senta oppressa da un senso di inautenticità, persino adesso, parlando con te, non riesco ad accorciare la distanza tra il mio vero io e quello falso, che è quello che ascolto esibirsi”. Senza accennare a querelle decennali di critica letteraria sul rapporto tra finzione e realtà, quanta autenticità c'è nella letteratura, quanto ha potuto constatare ce ne fosse nei libri degli autori che ha conosciuto e, soprattutto, quanto è importante questa problematica per gli scrittori americani?

Ma questa è una domanda folle! Ci vorrebbero volumi interi per rispondere. L’unica cosa che posso dire è che un’opera letteraria è vera letteratura quando scaturisce da un’esigenza autentica, quando è necessaria. Altrimenti è intrattenimento. O virtuosismo. L’ “urgenza” non mente: è uno spartiacque molto preciso. Di qua ci stanno i libri necessari, di là quelli di cui si può fare a meno.

“La letteratura è niente di più niente di meno che una questione di vita o di morte”, per ritornare a Mavis Gallant. È anche un impegno civile?

Per alcuni sì. Franzen, per esempio, Roth, senz’altro. DeLillo. E per tutti gli scrittori francesi fedeli alla tradizione dell’écrivain engagé. Ma esiste anche una letteratura che può dirsi tale senza essere fondata sull’impegno civile, o morale. Come dice Nicole Krauss, non leggiamo Philip Roth per la sua saggezza morale, ma per la sua ambiguità morale.

Fare giornalismo come lo ha fatto Lei, instaurando poi una relazione personale con molti di questi scrittori, significa anche porsi nei confronti dell'intervistato come una sorta di psicologa, intuendone la personalità, rispettando i limiti e cercando di trarre il meglio e, forse, anche un po' del peggio di quella persona. Qual è la ricetta per fare una buona intervista?

Conoscere bene l’opera di un autore. Documentarsi a fondo su di lui. Preparare con cura le domande. Poi metterle da parte e dimenticarle. E a quel punto, semplicemente, ascoltare.


giovedì 5 novembre 2015

Il ritorno di JK Rowling al mondo della magia



Era il 21 luglio del 2007 quando, dopo l’uscita nelle librerie dell’ultimo capitolo della saga dedicata al suo maghetto, J.K. Rowling annunciava di voler prendersi una pausa a tempo indeterminato da Harry e dal suo mondo. Sono seguite le uscite de Il Seggio Vacante, prima opera della scrittrice estranea all’universo Potteriano e i tre gialli dedicati all’ispettore Cormoran Strike, pubblicato con lo pseudonimo inizialmente segreto di Robert Gailbrait. Negli ultimi due anni, però, in opposizione a quella che sembrava la sua originaria intenzione, la Rowling ha invece fatto ritorno al mondo della magia proponendo nuovi contenuti che sono andati – e andranno – ad aggiungersi al corpus originale della Saga.



La prima novità, di cui già avevamo parlato sul nostro blog, è che il 13 ottobre hanno avuto inizio le riprese del film inspirato al libro Gli Animali Fantastici: dove trovarli, pubblicato sotto lo pseudonimo di Newt Scamander, che sarà proprio il protagonista della pellicola. Dalle informazioni rilasciate il 22 settembre e il 13 ottobre, abbiamo appreso che a interpretare questo ruolo sarà Eddie Redmayne – vincitore dell’Oscar 2015 come miglior attore protagonista nei panni di Stephen Hawking ne La teoria del tutto –, cui andranno ad aggiungersi Katherine Waterston nella parte di Porpentina Goldstein, Colin Farrell in quella di Graves, Ezra Miller nel ruolo di Crence, Alison Sudol in quello di Queenie, Dan Fogler in quello di Jacob e Samanta Morton in quello di Mari Lou.
Probabilmente questi nomi vi diranno poco, al momento, ma non temete, le notizie continueranno ad arrivare.
A quanto riportano i corrispondenti di Pottermore.com, i lavori procedono in modo lento ma meticoloso, con il massimo impegno da parte del cast artistico e tecnico.

La cinepresa si accende. L’azione ha inizio.

Non saprei dirvi cosa esattamente quello che accade in questa scena, in parte perché non ho idea di quel che sta succedendo e in parte perché la ripresa perfetta richiede molto tempo. Siamo qui seduti da venticinque minuti a osservare la stessa sequenza che viene ripetuta senza sosta. Una cosa però la so: è un momento molto importante per Newt (Eddie), Tina (Katherine) e Graves (Colin) a New York. Veramente molto importante.
Con una precisione perfetta, Katherine Waterstone poggia delicatamente a terra un oggetto fondamentale. Colin Farrell inarca un sopracciglio in modo molto eloquente. Altri attori meravigliosamente vestiti recitano e reagiscono agli stessi gesti fino a quando una parte della scena è stata completata.
Questo processo, stando a quanto ci dice una fonte interna affidabile, si ripeterà ancora e ancora per ore, giorni e mesi, sino a quando ogni singolo fotogramma non sarà pronto per il montaggio finale.”

Ma le novità riguardanti il maghetto non si limitano al mondo del cinema.
Dagli inizi di settembre, infatti, J.K Rowling aveva inviato un messaggio a tutti gli utenti iscritti a Pottermore, annunciando un cambiamento della veste grafica e dei contenuti del sito.
All’interno del nuovo, labirintico Pottermore è ancora possibile divertirsi a scovare contenuti speciali, ma non sarà più necessario registrarsi e loggarsi attraverso i vecchi account. In poche parole, il sito si è trasformato in una vera e propria enciclopedia multimediale totalmente gratuita, attraverso cui l’autrice e gli amministratori della piattaforma potranno veicolare nuove informazioni sul mondo di Harry Potter.
Ed è proprio attraverso questa nuova, sensazionale vetrina che sono state divulgate le prime indiscrezioni sullo spettacolo teatrale Harry Potter and the Cursed Child, sceneggiato dalla stessa Rowling e da Jack Thorne. Stando a quanto dichiarato, la pièce – che ruoterà intorno al personaggio di Albus Severus Potter, il figlio minore di Harry e Ginny Weasley – sarà divisa in due parti e debutterà il 30 Luglio 2016 al Palaxe Theatre di Londra per la regia di John Tiffany.


Il 28 ottobre si è svolta la prevendita di una parte dei biglietti, destinata a coloro che avevano effettuato la prenotazione prioritaria attraverso Pottermore, ma altre date sono attualmente disponibili al seguente indirizzo. http://www.harrypottertheplay.com/ticket-information/.

A cura di Tonino Mangano e Chiara Messina.

Video: letture di ottobre 2015



Ciao a tutti! Scusate per l'assenza, ecco le letture di ottobre. Mi sono soffermata pochissimo su alcuni titoli dando molto più spazio a un paio di questi, e nonostante ciò non sono riuscita a rendere il video più breve di 15 minuti. Spero comunque che non vi annoi!

lunedì 2 novembre 2015

Hard News e amore per i libri: intervista a Jeffery Deaver



Mercoledì 28 Ottobre la Scuola Holden di Torino ha ospitato il maestro americano del thriller Jeffery Deaver che ha presentato, all'interno del Salone Off 365, il suo ultimo romanzo pubblicato in Italia, Hard News.
Il capitolo conclusivo della trilogia di Rune, che in Italia è stata pubblicata da Rizzoli a partire dal 2009, ci trascina nella New York dei notiziari locali dei primi anni novanta, epoca in cui i libri sono ambientati e in cui sono stati scritti.
Hard News è infatti uscito, negli Stati Uniti, nel 1992 e solo adesso i lettori italiani possono goderne nella traduzione di Seba Pezzani.
In questo atto finale della sua storia, la giovane e ambiziosa aiuto cameraman Rune si trova a indagare sul caso di un uomo accusato ingiustamente di omicidio, finendo per smuovere il pantano di un intrigo che avviluppa l'intero network per cui lavora.

Dopo una breve introduzione sul suo metodo di lavoro, Deaver ha risposto alle domande del gruppo di lettura formato dagli alunni della scuola, dimostrando che anni di interviste lo hanno dotato di una grande schiettezza e capacità di summa, davanti ai quesiti del pubblico.

Signor Deaver, Hard News è ambientato a New York, mentre lei è cresciuto a Chicago. Come si riesce a descrivere così bene una città di adozione da renderla un elemento della narrazione?

Il punto fondamentale è la documentazione sul posto, fare molte più ricerche di quanto poi trasparirà dal libro, che è sempre la punta dell'iceberg. La documentazione è la base di quel blocco di ghiaccio. A volte capita, nonostante ti sembri di essere diventato un esperto, di prendere degli abbagli. Per esempio, in un mio libro descrivo un tratto del fiume Hudson come pieno di rapide, ma durante una presentazione una signora mi ha avvicinato dicendomi che viveva proprio lungo quel tratto e che in realtà il fiume era prosciugato da anni. La documentazione è molto importante nel mio lavoro, perché ci sarà sempre qualcuno esperto di quello che stai scrivendo, pronto a notare le tue mancanze. Se succede che un lettore mi indichi delle imprecisioni, io mi scuso, perché quel piccolo dettaglio, che a me pareva insignificante, può aver minato per loro la godibilità del mio racconto.

In questo romanzo il sacrificio è una tematica forte, molto spesso la vita ti mette davanti a scelte che sembrano impossibili. Lei, come scrittore, ha mai dovuto sacrificare qualcosa per la sua carriera?

La domanda che uno scrittore deve porsi, prima di decidere se questa carriera fa per lui è: voglio scrivere un libro, o voglio vivere una vita da scrittore? Perché per scrivere libri c'è un dazio da pagare. Il mio processo creativo mi porta a passare mesi in solitudine, viaggiando. Lo scrittore è una persona sola. Ma ne vale la pena, perché non c'è niente al mondo come mettere in connessione le persone per mezzo delle proprie storie.

Come nascono i suoi personaggi?

Per creare personaggi credibili, lo scrittore deve essere empatico, riuscire a mettersi nei panni degli altri, di qualsiasi età o genere essi siano. Quando creo un personaggio, cerco di scriverne la biografia dal suo punto di vista, come se stessi compilando un curriculum vitae o la sua pagina facebook. A volte capita di affezionarti così tanto a dei personaggi che sapevi di dover far morire, da desiderare di salvargli la vita. Allora modifico la storia e magari li inserisco in un altro romanzo, ma devi avere una struttura molto solida e un'ottima conoscenza dei tuoi personaggi, per poterlo fare.

La sua scrittura è molto seriale, questa di Hard News è una trilogia, ma anche i suoi personaggi più famosi, come Lincoln Rhyme, vivono in più di un romanzo. Quando si rende conto di aver creato un personaggio che ha più di una storia da raccontare? è una sua decisione, quella di continuare una saga o è una proposta che arriva dalla casa editrice?

Gli editori amano le serie, perché ai lettori piace avere dei personaggi con cui poter spendere molto tempo, di cui vedere la crescita interiore. Il tipo di libri che scrivo deve presentare conflitti al suo interno, ostacoli che il protagonista deve superare per rivelarsi e per rivelare che può avere la meglio su ciò che la vita gli impone. Se stai guardando un film d'azione, come Mission Impossible, sai già che per quanto possa essere malmenato, Tom Cruise sarà sempre pronto a rialzarsi e battere il cattivo di turno, magari ricordandosi delle lezioni di karate che ha preso da bambino. I miei personaggi non sono così, sono più meditativi. Lincoln Rhyme non può alzarsi dalla sedia e sconfiggere il nemico fisicamente, dovrà necessariamente agire tramite il ragionamento.

Come si diventa scrittori miliardari?

L'amore per i libri. L'amore per i libri è fondamentale.
Questo e la struttura: nessuno legge un libro per arrivare a metà o per trovarlo noioso, è essenziale cercare idee che coinvolgano il lettore dalla prima all'ultima riga, pianificare la trama attentamente, come se fosse una sinfonia da camera. Come diceva Gustave Flaubert "I libri non si fanno come si concepiscono i bambini: si fanno come le piramidi, attraverso la progettazione e la collocazione di una pietra sull'altra, fino alla sommità".

A cura di Angela Bernardoni

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