venerdì 26 giugno 2015

Il tempio degli Otaku #108: PIL di Mari Yamazaki








Salve a tutti, e benvenuti ad una nuova puntata de "Il Tempio degli Otaku". La storia di cui parliamo oggi tratta di un'adolescente. Fin qui niente di nuovo: l'industria dei manga si fonda su  lettori di quell'età, e le opere dedicate a loro non mancano di certo. Ma qui non assisteremo alle fantasmagoriche avventure di  teenager in un mondo fantastico, né ad intricatissime vicissitudini sentimentali. Vedremo invece una ragazzina che cerca di trovare il suo posto in un paese ancora retrogrado come il Giappone, e un nonno che tenta di aiutarla, sebbene i suoi tentativi non sempre vadano a buon fine. Una storia di tutti i giorni, basata sulla vita dell'autrice, Mari Yamazaki. Ecco a voi PIL,  volume unico edito da Rizzoli. Buona lettura!

La sedicenne Nanami vive con suo nonno, la sua unica famiglia: non ha mai conosciuto il padre, e la madre è una famosa cantante lirica. Il nonno le è affezionato, ma la convivenza non è delle più facili, poiché ha l'allarmante tendenza di fare spese poco assennate. A questo aggiungiamoci un liceo privato che controlla ogni minimo dettaglio dell'aspetto e del carattere delle studentesse: non c'è da stupirsi se Nanami trova una valvola di sfogo nella musica punk (in particolare nei Public Image Limited, che danno il titolo all'opera) e cerca di rendersi indipendente economicamente. Il nonno segue il suo percorso, un po' inorgoglito e un po' preoccupato...

L'opera più famosa di Mari Yamazaki è senza dubbio Thermae Romae, originale omaggio agli antichi romani. Cercare analogie con PIL non è un esercizio molto utile. Eppure hanno qualcosa in comune: l'ambientazione nel Giappone degli anni '80. E se in Thermae Romae questa rimane subordinata all'antica Roma, in PIL diventa quasi la protagonista dell'opera. Tutta l'adolescenza di Nanami è condizionata dall'ambiente in cui vive: un ambiente asfittico, eccessivamente attaccato alle tradizioni, in cui una ragazza che desideri l'indipendenza incontra piccoli e grandi ostacoli. Dalla frangetta che deve essere obbligatoriamente spuntata (ma rasarsi i capelli equivale al voler farsi monaca) ai lavoretti che le ragazze possono o non possono fare. La musica punk - e, per estensione, l'Inghilterra - diventano la manifestazione di un ambiente libero da pregiudizi e condizionamenti esterni.
Un altro autore si sarebbe potuto fermare a questo punto. Ma Mari Yamazaki decide di approfondire se davvero la visione di Nanami sulla musica punk sia corretta o, al contrario, troppo idealizzata. Memorabile l'attacco del nonno a un ragazzo reo di aver illuso sua nipote: il vero spirito punk non è nella cresta, bensì nelle azioni.  C'è più etica punk in degli indefessi operai che in un bellimbusto con le borchie. In un'altra scena un personaggio esprime perplessità sul desiderio smodato di Nanami di andare a vivere a Londra: la musica punk, in fin dei conti, nasce come risposta alla crescente disoccupazione e degrado. Riuscirebbe Nanami a trovare quello che desidera, laggiù?
Una domanda che, all'epoca, si pose la stessa autrice. C'è una spiccata componente autobiografica in PIL,  evidente ad esempio nel narratore onnisciente, che non giudica mai i protagonisti. A dire la verità, questo si rivela anche la più grande pecca dell'opera: il comportamento sconsiderato del nonno avrebbe meritato ben più di una pacata condiscendenza. Parliamo di una persona estremamente vulnerabile, incapace di gestire i risparmi della sua famiglia, mettendo spesso in seria difficoltà Nanami. Una situazione che avrebbe meritato più di un volumetto, e soprattutto un'analisi più approfondita.

Il tratto di Mari Yamazaki è piuttosto personale, e lontano dalle mode. Gli studi all'Accademia delle Belle Arti di Firenze le hanno fatto adottare uno stile morbido, privo di fronzoli ma allo stesso tempo solido dal punto di vista tecnico. Uno stile che ben si adatta alle atmosfere pastello delle sue storie, assolutamente godibile.

PIL non punta a stupire il lettore con effetti speciali, né ad adularlo. È un'opera che fa della semplicità la sua maggiore forza: e il lettore amante degli slice of life non potrà che apprezzare questa autrice che promette, in futuro, molti altri lavori degni di nota.
E per oggi è tutto, cari amici. Arrivederci alla prossima puntata de "Il Tempio degli Otaku"!

mercoledì 24 giugno 2015

Recensione: Dov'è finita Audrey? di Sophie Kinsella



Dov'è finira Audrey?, Sophie Kinsella
Mondadori
180 pagine, 16.00 euro
Per la prima volta alle prese con uno Young Adult, Sophie Kinsella, la più brava autrice di chick lit in circolazione, riesce con spontaneità, semplicità e, a suo modo, una dose di profondità, a fare molto meglio di alcune pretenziose colleghe.
Dov'è finita Audrey? (Finding Audrey il titolo originale, che trovo più suggestivo) è la storia di una ricerca intima, compiuta dalla quattordicenne protagonista per ritrovare se stessa dopo un grave episodio di bullismo (mai esplicitato nel libro). Audrey, che indossa sempre grandi occhiali da diva – facile il collegamento con la Hepburn – ha difficoltà a stabilire un contatto, anche visivo, con gli altri. Non solo con gli estranei, ma anche con i membri della sua famiglia, fatta eccezione per il fratellino di quattro anni, l'unico con cui si permette di togliere le lenti. Soffre di attacchi di panico e non ha più un cellulare, tanto la terrorizza l'idea di relazionarsi con le persone, tiene chiuse le persiane della sua stanza, non esce di casa e ha interrotto qualsiasi rapporto con le sue amiche.

Quando la sua psichiatra, in vista del rientro a scuola – ha ormai perso un anno scolastico – le suggerisce una nuova terapia, Audrey comincia, in maniera impacciata, a reagire. La telecamera con cui deve riprendere la vita familiare le offre un punto di vista più “protetto” e coraggioso, e anche più attento. Grazie a questa, comincerà a spiare l'amico del fratello maggiore, Linus, che la indurrà a compiere i primi passi verso la “normalità”. Passi che non sono né scontati né immediatamente riusciti, come un'autrice meno attenta della Kinsella avrebbe potuto mostrare.

Il percorso di riabilitazione di Audrey è accompagnato dalle vicende in famiglia che lei ritrae – l'autrice descrive in sequenze i contenuti dei video. Hanno al centro il conflitto tra la madre, ritratta con tinte caricaturali tipiche della scrittura della Kinsella, e il figlio più grande, un ragazzo appassionato di videogiochi e, in parte, dipendente da questi. Gli intermezzi divertenti, l'esagerazione di questo genitore estremamente preoccupato del benessere dei figli (una donna in carriera molto brava nel suo lavoro, a cui ha rinunciato per seguire da vicino la malattia di Audrey, e che ha iniziato a leggere il Daily Mail credendo a qualsiasi sciocchezza vi sia scritta) e, dall'altra parte, le motivazioni del figlio che trova in “Loc” (Land Of Conquerors) non solo uno svago, ma anche un senso di rivalsa, offrono molteplici spunti di riflessione sul rapporto genitore-figli, sui tentativi di realizzazione personale degli adolescenti, sulle problematiche che la depressione e i disturbi psicologici comportano a tutti i membri della famiglia.

Dov'è finita Audrey? non parla quindi esclusivamente dei problemi della sua protagonista, ma allarga il raggio di azione valicando i limiti dell'egocentrismo che questa tipologia di malattia implica.
Sophie Kinsella ne parla in modo mai retorico, senza vittimismo e autocompatimento, rendendo in maniera molto verosimile le reazioni di Audrey: la convinzione di essere guarita, la sospensione dei farmaci, la ricaduta, la paura.
Il tema del bullismo è invece affrontato soltanto di striscio, ma viene messa in evidenza la sensazione di inferiorità che avviluppa le ragazze tiranneggiate dalle coetanee. L'amore adolescenziale non è ostentato con smancerie e iperboli: è molto discreto, delicato, privo di morbosità e, soprattutto, non noioso.

La Kinsella non scrive letteratura, è un dato di fatto e incontrovertibile. Lo stile non è per nulla elaborato, e l'incipit (Oddio, la mamma è impazzita. Non mamma-pazza normale. Proprio pazza per davvero.) farebbe storcere il naso a chiunque, pur tenendo conto che a parlare è una quattordicenne in prima persona.
La trovo però un'autrice molto intelligente, capace di ridere dei suoi personaggi, che vengono portati spesso allo stremo per accentuare il lato comico della situazione, ma anche per rispecchiare nel modo più paradossale – e veritiero – i difetti di chiunque. Vero che la serie I love shopping, con protagonista la shophaolic Becky Bloomwood, è ripetitiva, ma con questo gradevole Young Adult Sophie Kinsella dimostra di sapersi rinnovare, senza perdere lo smalto e l'impronta che la caratterizzano.

Voto: 

Consigli di lettura: Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (Video)



Ciao a tutti! Ecco il video su Fahrenheit 451 annunciato due video fa. Si tratta del secondo che ho fatto in ordine cronologico, quindi se mi vedete "peggiorata" rispetto agli altri video (rigida o troppo formale) è anche perché l'ho girato subito dopo quello di presentazione. 
(Lo stesso motivo per cui parlo solo qui dello sfondo del video XD)
Spero comunque di non essere stata noiosa, e chiedo scusa se potrò sembrare ripetitiva. 
Ringrazio tutti i nuovi iscritti al canale e chi ha la pazienza di commentare segnalandomi anche quello che non va :)


lunedì 22 giugno 2015

Recensione: Cari mostri di Stefano Benni



Cari mostri, Stefano Benni
Feltrinelli
256 pagine, 17.00 euro
Il romanzo è una storia d'amore, il racconto è la passione di una notte, scriveva Niccolò Ammaniti nella prefazione della sua ultima raccolta di racconti, Il Momento è delicato.
Per Stefano Benni, però, i racconti sembrano più essere la passione di una vita, a cui tornare ciclicamente, come fossero dei vecchi amici.
E così, a otto anni dalle storie di solitudine e allegria raccolte in La Grammatica di Dio, l’autore torna con Cari mostri ai suoi amici racconti, in quello che potrebbe essere il suo ultimo libro (ma anche no, impossibile capire quanto fosse serio il Lupo, affermandolo all’incontro svoltosi durante l’ultimo Salone del Libro di Torino).

Stavolta Benni si confronta con la Paura, tema tipico dei suoi racconti, già più volte affrontato con vari gradi di serietà (in Il Bar Sotto il Mare uno dei narratori, dalle fattezze di Edgar Allan Poe, racconta la storia di Oleron, piccola perla dal finale a sorpresa) in una raccolta sfaccettata che racchiude in sé tutti i generi letterari che si nutrono della paura, del terrore e dell’orrore suscitati nei lettori.

Ecco quindi che la tecnologia, grande spauracchio della nostra generazione iperdigitale, prende il sopravvento sulla vita dell’uomo in numeri, in Hänsel@Gretel.com i due fratellini si lamentano con il padre della televisione con un solo canale e della mancanza di wifi nella loro capanna, mentre in Candy le intelligenze artificiali si ribellano ai clienti, vendicando le colleghe maltrattate.

Benni non si dimentica niente: il maestro Poe, i fantasmi, le streghe, le mummie e il diavolo. Tutti gli spauracchi degli uomini si trovano in questi racconti che sanno far rabbrividire e sorridere sempre nel momento giusto.
Ma c’è spazio, tra i venticinque racconti di questa raccolta, anche per il pulp di Polpa, per il noir poliziesco per gattofili di L’ispettore Mitch e per quei racconti un po’ borgesiani di straniamento e smarrimento, di quelli che non sai mai se finirai di leggere, se esisterà una fine, quanto sarà lungo il viaggio verso casa.

La storia della strega Charlotte, il penultimo racconto, è a mio avviso il codice che ci permette di tradurre ogni singolo anello di questa catena narrativa, di farci riflettere in questi racconti che specchiano la contemporaneità e la realtà di un mondo dove tutto ciò che è altro da noi ci spaventa, e tutto ciò che ci spaventa, tentiamo di aggredirlo, di non lasciarlo passare.

Bè, ci sono storie spaventorride che cominciano subito con l’apparizione fulmificante del mostro, in questo caso la strega, oppure ci sono storie che cominciano con una misteriosa porta chiusa, dietro la quale voi presentite il mostro in agguato e poi la porta cigola e si dischiude e appare un’ombra minacciosa e… ditemi, orsù piccoletti, quali storie vi fanno più paura? Quelle dove il mostro arriva subito o quelle dove lo si aspetta?

E cosa potrei dirvi io, di più, per non rovinarvi questi racconti, queste porta chiusa dietro cui si nasconde il Lupo? Leggeteli, un ritorno in grande stile per Stefano Benni, un nuovo libro con i fiocchi.

L’amore è uno strano sentimento per gli umani, per i garri e financo per le oloturie e i dugonghi. Si aspetta con ansia per anni, si desidera, si maledice la solitudine e magari l’amore arriva nel modo più inatteso, più imprevedibile.




Voto: 

A cura di Angela Bernardoni 

sabato 13 giugno 2015

Video: Unread Books Tag (ovvero manie da accumulatrice compulsiva) #1




Ciao a tutti! Questa volta ho girato un video tag che forse inaugurerà una vera e propria rubrica (fino a esaurimento scorte): vi mostro i libri che ho in casa ma che non ho ancora letto. Sono più di cento e in questo primo video il campione è limitato a tredici, in modo che non fosse lungo come quelli di prima. Ma si tratta solo della punta dell'iceberg D:
Ho deciso di non postare ancora il video su Fahrenheit 451 perché, dopo l'ultimo sui classici, volevo puntare su qualcosa di più leggero e breve, sperando di non annoiarvi. Ma arriverà presto anche quello!





venerdì 12 giugno 2015

Recensione: Vergogna, di J.M. Coetzee


Vergogna, J.M. Coetzee
Einaudi
234 pagine, 12.00 euro
Premio Nobel 2003, Coetzee è uno scrittore sudafricano che nel suo maggior lavoro, Vergogna, sembra volere rappresentare in maniera cruda e verosimile i problemi di cui la parte più difficile del suo paese è affitta. La realtà mostrata da Coetzee è però più problematica, atavica, antropologicamente complessa di così, e rimanda a un clima culturale tanto distante dal nostro e così “primitivo” (come può esserlo il romanzo di Golding, Il signore delle mosche) da creare un rigetto verso la materia del romanzo.

Tra la prima e la seconda parte del libro esiste una linea di demarcazione che sembra tradursi nelle opposizioni città/campagna, società civile/territorio selvaggio, bianchi/neri; è una contrapposizione solo apparente, e il tema centrale rimane lo stesso in tutto il libro: lo stuprum, che in latino significa appunto “vergogna”, prima perpetrato dal protagonista nel lindo ambiente accademico, poi subìto da sua figlia, in un contesto dove vige la legge del più forte, la prevaricazione del maschile sul femminile – sia in termini fisici che di libertà – e dove la “famiglia” è ripensata in base a un ordine gerarchico e claustrofobico, assumendo i connotati di un assemblamento allargato di individui in cui il capo esercita protezione sui membri subordinati.

Tuttavia, forse maggiormente esemplificativa è la figura del protagonista, David, cinquantaduenne cinico, misogino (di questo ci si rende conto, tra le tante cose, dal fatto che non sappia descrivere le donne se non in termini estetici e di appetibilità sessuale), egocentrico, spesso privo di empatia, troppo concentrato sulle sue sensazioni e sulla magnificenza della propria persona per comprendere le conseguenze delle sue azioni. Infuocato dalla passione per una studentessa – è infatti un professore universitario, uno di quelli, per intenderci, che sentono la necessità di infiocchettare il discorso con continui riferimenti letterari – la soggioga con la sua presenza massiccia, insistente, disturbante, senza nemmeno tentare di conoscerla. Verrà a sapere da terzi, ad esempio, che si tratta di una ragazza piena di passione e talenti, stupendosi di una cosa a cui non aveva mai fatto caso.

Il suo è un “amore” narcisistico, soverchiante, teso principalmente a soddisfare l' ego tramite la conquista di una ragazzina troppo annichilita (sembra) per reagire. Il tema della giovinezza e della vecchiaia si fa prominente. C'è un delitto, un peccato di hybris, un deturpamento della seconda sulla prima. Il ridicolo e il biasimo che copre David concerne l'infamante pretesa di essere attraente agli occhi di una ragazza, quando il suo corpo, flaccido e infiacchito, può suscitare solo disgusto alla giovinezza. Lui, d'altro canto, non avverte – se non in brevi istanti di lucidità – il proprio sbaglio e la prepotenza di qualcosa che, al contrario, sente come un suo diritto: lo sfogo dei sensi, la pretesa dell'eros.

David paga però il contrappasso nella seconda parte del romanzo, e sulla pelle della figlia. Ma, come se la prima parte non fosse stata adeguatamente ripugnante, nella seconda si aprono scenari forse ancora più crudi e abietti, per quanto non siano tanto diversi dalla violenza sibillina finora raccontata. In entrambi i casi, lo stupro viene visto come una facoltà di prerogativa maschile, ma nel secondo il lasciapassare sessuale è il pegno per una vita tranquilla sotto la protezione di un altro uomo.
La feralità dell'azione è quasi la stessa, malgrado David senta di essere un avamposto della civiltà, e la regressione al mondo in cui vive la figlia, regolato da leggi proprie, rappresenta solo superficialmente la caduta da uno stato aureo a quello animalesco. Anche gli animali hanno, infatti, un loro ruolo, ma sembrano in balia, come i protagonisti, di una forza superiore che li addormenta e li sopprime. La resa alle forze brute della natura e dell'istintualità: ecco il significato ultimo, frustrante, devastante.

C'è anche un motivo razziale: gli uomini soggiogano le donne come i banchi hanno soggiogato i neri, che, vedendoli come estranei e usurpatori, fanno valere le proprie leggi. L'odio è palpabile, e la sottomissione della donna bianca è quella di una intera etnia.

Vergogna è un libro straziante, difficile non per lo stile – che risulta anzi scorrevole, puntuale, privo di barocchismi superflui – ma per le vicende e i dialoghi quasi inumani, che mi hanno reso la lettura fisicamente dolorosa, e per via delle scelte incomprensibili che compie la figlia. Nella sua figura c'è la nemesi delle colpe del genitore. E il mondo in cui lei, a venticinque anni, sceglie di vivere, è un posto dove non è altro che carne da macello in un deserto sorvolato da avvoltoi.






J. M. CoetzeeJ. M. Coetzee

è nato in Sudafrica e attualmente vive in Australia. Di lui Einaudi ha pubblicato: Vergogna, Aspettando i barbari, La vita e il tempo di Michael K, Infanzia, Gioventú, Terre al crepuscolo, Nel cuore del paese, Foe, Il Maestro di Pietroburgo, Età di ferro, Slow Man, Spiagge straniere, Diario di un anno difficile, Lavori di scavo. Saggi sulla letteratura 2000-2005, Tempo d'estate, Doppiare il capo, L'infanzia di Gesù e Qui e ora, il carteggio con Paul Auster. Nel 2003 è stato insignito del Premio Nobel per la Letteratura.

giovedì 11 giugno 2015

L'editoria per ragazzi oggi. Intervista a Beatrice Masini


La letteratura per ragazzi è stata negli ultimi anni rivoluzionata dall'introduzione del cosiddetto target "Young Adult", una fascia di riferimento che va dai quattordici ai diciotto anni.
Dentro questo contenitore sono stati inseriti titoli molto diversi tra di loro, e dai generi più disparati, che spesso usano il pretesto del fantasy o della distopia per raccontare, in realtà, storie banali e commerciali, oltre che mal scritte.
La "piaga" di questo tipo di Young Adult è sociale e pedagogica. Se i libri per ragazzi non devono necessariamente avere lo scopo di educare, sarebbe opportuno almeno non avessero  quello di diseducare. Troviamo invece romanzetti rosa che rimarcano stereotipi di genere, relegano il primo amore a quello di tutta la vita, descrivono relazioni impossibili dove viene ribadito il concetto di sacrificio. Non è solo l'appiattimento del linguaggio, che abbassa il livello della lettura per non renderla faticosa e ne annulla l'utilità pratica (vista come superflua e quasi offensiva, dato che il valore primario viene dato all'evasione fine a se stessa e priva di intelligenza), ma è anche la trasmissione di messaggi sbagliati o, peggio, l'assenza di trasmissione di qualsiasi messaggio: libri che non restituiscono nulla al lettore, rendendolo quasi più vuoto di prima. Alle spalle di questo c'è l'importazione massiccia di libri provenienti dagli Stati Uniti e scritti da persone improvvisate, per lo più donne, che non conoscono l'uso adeguato della parola scritta. Ma c'è anche la disonestà intellettuale di chi foraggia i ragazzi con prodotti che valgono meno di zero e con il pretesto che questi romanzi "vendono" – sottovalutando continuamente l'intelligenza degli adolescenti e abbassando, per via della somministrazione continua di libri scadenti, le loro pretese letterarie, forti della convinzione che i giovani leggano tutto senza badare alla qualità.
Per fortuna, l'editoria è fatta anche di persone non solo competenti e professionali, ma che hanno a cuore i libri che producono e che avvertono il peso della scelta editoriale destinata al giovane pubblico. Personalità fondamentale in questo ambito è Beatrice Masini, molto conosciuta come scrittrice e traduttrice (è sua la traduzione di Harry Potter), ma che da anni lavora nell' editoria per ragazzi. Prima di essere trasferita all'ufficio diritti internazionali di Bompiani, Beatrice Masini è stata direttrice editoriale della sezione per ragazzi di Rizzoli e, prima ancora, editor della narrativa per ragazzi di Fabbri Editori. 
È stata per me un onore e un grande piacere intervistarla. La considero uno dei migliori esempi dell' editoria d'eccellenza italiana, un modello da seguire per costruire un'editoria futura più consapevole e attenta alle vere esigenze degli adolescenti.



I libri hanno sempre bisogno di cure, in modo differente l'uno dall'altro. L'iter che porta alla pubblicazione passa per la valutazione del testo, editing e revisioni. Ma l'editoria per bambini e ragazzi ha bisogno di molte più attenzioni, almeno questo accade nelle case editrici che si pongono il problema di una sorta di responsabilità (mi corregga se sbaglio) nei confronti del giovane pubblico. Può spiegare in cosa consiste, in base a questa premessa, la differenza tra editoria per ragazzi e per adulti?

La responsabilità prima di tutto. Se si scrivono e si pubblicano libri per bambini e ragazzi vuol dire che si sceglie per loro, così come chi compra o diffonde libri per bambini e ragazzi (i genitori, gli insegnanti, gli animatori della lettura) sceglie per loro. Nel caso dei bambini scegliere è anche un dovere: pensare che possano farlo da soli è assurdo, è uno scarico di responsabilità.
Poiché là fuori c’è di tutto – libri da tutto il mondo, d’evasione, d’impegno, leggeri, problematici, facili, difficili, banali, scritti male, accurati, eccezionali – scegliere vuol dire avere un’idea chiara di ciò che si può e si deve proporre, e agire di conseguenza. C’è la buona evasione, ci sono i buoni libri leggeri, ci sono i brutti libri e basta – gli epigoni, le copie di copie, i romanzi concepiti a tavolino – che vanno lasciati dove sono. E ogni tanto ci sono i capolavori, e a quelli non si deve resistere, anche se si ha la netta sensazione che non verranno capiti, o non subito. Mentre vanno ignorati i libri – ce ne sono tanti – che non aggiungono niente alla gioia, all’allegria, alla leggerezza, al tormento della lettura. Meno libri inutili ci sono in libreria, più è facile che i bambini e i ragazzi si trovino tra le mani libri interessanti, magari anche importanti, magari anche fondamentali. Va da sé che la responsabilità deve fare da linea-guida in tutti i passaggi della catena: traduzione, editing, riletture devono essere allineate – no alla censura, no alle semplificazioni, no all’appiattimento del linguaggio.
Se ci si occupa di libri per adulti le maglie sono più larghe perché gli adulti sono in grado di scegliere da soli, e se vogliono buttare tempo e denaro è affar loro. Ciò non toglie che anche in quel mondo si facciano troppi libri superflui, che magari sono anche innocui ma sottraggono spazio e attenzione ai libri importanti.


Gli adolescenti vengono visti dagli adulti, spesso, come sorta di alieni. Si tende a trattarli come se fossero ancora bambini – quindi la violenza nei libri a loro destinati, ad esempio, non deve essere mai eccessiva –, e a proteggerli da cose che invece conoscono e a cui sono abituati. In editoria, ci sono stati casi in cui un libro destinato a una fascia puberale è stato ri-pubblicato qualche anno dopo con target Young Adult. Condivide queste affermazioni? Crede che nel mondo dei libri per ragazzi dovrebbe esserci maggiore consapevolezza del target di riferimento?

Il target di riferimento è una parolaccia, per quel che mi riguarda, in zona adolescenti-giovani adulti, nel senso che ogni libro è un mondo e ogni lettore anche, non si può generalizzare e tracciare linee di collegamento sicure è arduo. Quando c’è un caso o un fenomeno che emerge, si tende a considerare quello come il metro di paragone di tutta la letteratura dai 12-13 anni in su, facendo di ogni erba un fascio: come se i libri per adolescenti e YA fossero un genere. È in verità molto difficile stabilire fasce d’età che abbiano un senso. Fino a 12-13 anni grossolanamente può guidare il livello della classe frequentata: ma già davanti a un lettore forte questa corrispondenza cade. Allora guida l’età dei protagonisti, un criterio forse semplice ma importante. La tendenza a proteggere – o sottovalutare: a volte è lo stesso – il lettore è diffusissima. Non ci sono temi che non possano essere trattati dalla letteratura per adolescenti (come da quella per bambini, del resto): il solo discrimine è trovare il modo giusto, le parole per dire le cose. Spesso il problema riverbera anche sull’aspetto fisico dei libri: c’è tutta un’iconografia banale che tende a smorzare le peculiarità, a nascondere il carattere dei romanzi a favore di una neutralità generica. Ma tutto questo – la confusione del target, l’omogeneità delle copertine – va ricondotto alla difficoltà che c’è a monte nel leggere questa categoria di libri per quello che è: non un filone, non un genere, ma una giustapposizione di libri singoli e diversissimi tra loro. Mettere John Green accanto alle fan fiction solo perché in teoria sono per lettori della stessa età è fare un gran pasticcio.


Sono fortemente convinta che il target Young Adult serva spesso a giustificare libri di sottile spessore, dove la rappresentazione dell'amore è restituita in maniera assoluta e spesso nociva – soprattutto quando il pubblico è femminile e viene richiesto, attraverso i reclami in copertina, il sacrificio di chissà cosa, se non della propria stessa vita. È altresì vero che si tratta di romanzi di evasione, e che qualcuno obietta non possano influenzare alcunché, giustificando così il messaggio sostanzialmente sbagliato. Qual è la sua posizione?

I libri d’evasione possono essere molto divertenti e molto ben costruiti – ma pochi sono fatti così. È più facile che siano sciatti e mal scritti, perché tanto sono libri d’evasione – un cane che si morde la coda. I contenuti – amori eterni che possibilmente trascendono le ere – spesso fanno sorridere, è vero. Ma una ragazza di sedici anni dovrebbe essere in grado di capire il messaggio, e di rifiutarlo, se le va. Il vero problema è che il target YA si è appena e faticosamente conquistato un suo spazio in libreria e che questo spazio rischia di venire occupato da romanzi che sono dei rosa semplificati a uso delle ragazzine e verniciati di qualche genere (a scelta: fantasy, distopico, realistico, medicale, eccetera).


Quali sono le caratteristiche di un buon libro per ragazzi, a Suo parere?

Sono le stesse di qualunque buon libro: voce forte, trama robusta, scrittura interessante, peculiare e accurata (che vuol dire anche attenta al destinatario, adeguata).


Spesso si dice che un bambino che legge sarà un adulto che pensa. Per questo motivo, credo che la letteratura per ragazzi sia estremamente importante, debba essere densa di contenuti e di un linguaggio non banalizzato, ma ricco, stimolante e, perché no, colto – cosa che ormai tende a scomparire, perché la via presa dai libri per ragazzi è quella della semplificazione. Mi sembra che ci sia uno spartiacque tra ciò che era un tempo il libro per ragazzi e quello che è diventato oggi, pur passando da coinvolgenti collane come quelle dei Piccoli Brividi che, a loro modo, hanno fatto appassionare moltissimi ragazzi alla lettura (volendo comunque precisare che la letteratura per bambini in Italia resta a un livello molto alto, mentre è quella per adolescenti che prende, in linea generale, derive che non condivido). Volendo fare il punto della situazione degli ultimi anni e tenendo in considerazione, ovviamente, l'evoluzione dei tempi, crede anche Lei che ci sia una differenza qualitativa tra i libri per ragazzi che sono dei classici e quelli che oggi vengono pubblicati?

Oggi c’è troppo di tutto, temo. E se la qualità media è più alta, è pur vero che l’aggettivo medio si attaglia alla gran parte di ciò che viene pubblicato. Si pubblica medio per non scontentare nessuno, per far le cose facili, credendo di andare incontro ai lettori. Che devono essere sfidati, invece. Anche il tema delle collane è scottante: un tempo la narrativa era fatta tutta di collane, poi si è passati alla valorizzazione spasmodica del singolo titolo e via via i buoni contenitori si sono andati prosciugando. Alcune delle collane storiche sono proprio spente. E invece è importante creare dei recinti entro i quali un ragazzino lettore possa pescare a occhi chiusi, fidandosi.


A proposito di questo, sono tantissimi i bei libri per ragazzi usciti grazie anche al Suo lavoro a Rizzoli, dove ha curato per anni il catalogo di questo settore. Quali sono stati i migliori, secondo Lei? E quali sono quelli di altre case editrici che avrebbe invece voluto pubblicare, per la loro qualità?

Ho pochi rimpianti: ho potuto lavorare per un lungo periodo facendo scelte liberissime. John Green viene da lì. Ma anche M.T. Anderson, l’autore di Feed e di Octavian Nothing; Genesis di Bernard Beckett, forse il più bel distopico che abbia letto; Ho un castello nel cuore di Dodie Smith; La signora nella scatola di Jenny Valentine; Sonya Hartnett; Aidan Chambers; John Boyne. Un altro distopico gioiello, L’eclisse del secolo di Jan Mark. Millions di Frank Cottrell Boyce, una perfetta commedia inglese. Smetto, anche se so che me ne sono dimenticati tanti. Ricordo con dispiacere di aver perso l’asta per Hugo Cabret, andato a Mondadori, e avrei voluto pubblicare Philip Pullman, Anne Fine e Patricia MacLachlan. E Skellig di David Almond.



John Green è appunto uno dei tanti scrittori stranieri che Lei ha portato in Italia, e che ha riscosso un successo straordinario soprattutto dopo la pubblicazione di Colpa delle stelle, nel 2012. L'autore era infatti presente in catalogo già da diversi anni e, pur avendo fatto parlare discretamente di sé con Cercando Alaska, non ha avuto la notorietà che meritava fino a un paio di anni fa. Si aspettava che sarebbe nato questo fenomeno? E cosa ne pensa?

Mi aspettavo che John Green venisse scoperto prima o poi anche da noi come lo straordinario interprete della complessità dell’essere molto giovani: eravamo solo in ritardo rispetto al resto del mondo, ci voleva un film per arrivarci. E come sempre accade i successi cosmici sono specchi deformanti, trasformano ciò che riflettono e ne rimandano un’immagine tutta diversa. Poi sono arrivate le copie, ed è è stato coniato l’orrendo termine sick lit per indicare un orrendo sottogenere nascente, e Colpa delle stelle è stato letto anche dalle ragazzine di quinta e di prima media, e non credo che sia per loro. Città di carta, che si sta pure prendendo la sua rivincita, è un libro ancora più difficile. Alaska, il mio preferito, è sfrontato e oscuro. Sono tutti libri per lettori forti. Se il loro successo volesse dire che i lettori forti sono centuplicati, benissimo. Ma temo che non sia così.


La saga di Harry Potter, che Lei ha tradotto, è ormai un classico per ragazzi di cui forse, quando arrivò in casa editrice, non aveva immaginato la portata che avrebbe avuto. C'è chi ancora lo sottovaluta, relegandolo a favoletta fantasy che non può ispirare gli adulti. Pensa che ci sia un genere – il fantasy, ad esempio – da cui i giovani sono più attratti? E quale importanza può avere nella loro crescita?

Credo che nessuno avesse immaginato la portata di Harry Potter, che è stato un fenomeno epocale. Credo che sia destinato a restare con noi a dispetto di chi lo relega nel genere: perché, poi? La letteratura di genere ha una sua nobiltà e un suo rango. Occupa uno scaffale importante che per molto tempo è rimasto in ombra. Io avevo letto Il Signore degli Anelli da ragazzina, ma poi era sparito per tornare in auge in tempi recenti grazie al cinema, e lo ritengo ancora uno straordinario romanzo di formazione. Non ha fatto di me una fanatica del fantasy, ma un’appassionata di letteratura inglese sì. Sì. A dire che non si può sapere da dove scaturiscono le passioni profonde: per riconoscerle bisogna assaggiare di tutto.

Quali sono stati, quindi, i libri – non necessariamente per ragazzi – che hanno contribuito alla Sua formazione?

Ecco, appunto. Steinbeck, Hemingway, Françoise Sagan sono state le mie letture da ragazzina. Prima ho amato le fiabe da tutto il mondo e Salgari. Poi sono arrivate le sorelle Brontë, e solo parecchio più in là Jane Austen. Tolkien, dicevo, e tanta poesia: dai lirici greci ai poeti maledetti, e poi Pascoli, D’Annunzio, Montale, Ungaretti, Saba, Quasimodo. Forse il cuore ci resta, forse il cuore.








martedì 9 giugno 2015

Video: I miei 5 classici preferiti




Dopo l'ultimo video, che aveva una sostanziale carica critica (forse anche troppa, e dire che io mi sono limitata al minimo indispensabile) ho deciso di affrontare quello nuovo in maniera diversa, parlandovi in maniera meno pragmatica dei miei cinque classici preferiti.
Ho sempre amato i classici e sono i libri di cui riesco a parlare a cuore più aperto, anche perché si tratta di romanzi così immensi che qualsiasi cosa si possa dire su di loro risulta sempre insufficiente.
Quindi questa volta ho lasciato spazio ad altro, e in particolare al mio rapporto personale con il libro stesso. Non troverete analisi, semmai una ricapitolazione sommaria di alcune tematiche - che sono i motivi che mi spingono ad amare quel libro. 
Spero che la lunghezza non vi scoraggi, ma ho seguito il consiglio di un paio di ragazze (che saluto, grazie!) che mi suggerivano di non badare ai minuti.
Il prossimo video, invece, sarà quello su Fahrenheit 451, dove potrete annoiarvi liberamente - sempre che questo non vi annoi comunque! :D 

N.B. sulle recensioni scritte: oggi mi dedicherò a Vergogna di Coetzee. Ché, vabbè, non posso parlarne su YouTube, anche perché le parole ragionate, in questo caso, sono molto migliori di quelle di pancia (e credo che per molte cose comincerei a sbroccare, dati i contenuti molto pesanti del libro).

P.S.: scusate la faccia da papera che ho in ogni miniatura ma non posso farci niente.






Jane Austen 7Novels: 3:23
Delitto e castigo: 11:18
Il maestro e Margherita: 15:48
Madame Bovary: 23.25
1984: 30:35

sabato 6 giugno 2015

Il tempio degli Otaku #107: "Gli anni dolci" di Jiro Taniguchi







Salve a tutti, e benvenuti ad una nuova puntata de "Il Tempio degli Otaku". Le temperature poco clementi - almeno da dove scrivo - non favoriscono le riflessioni filosofiche, ma quando si parla di un grande autore come Jiro Taniguchi è il caso di fare uno sforzo. Siamo ormai abituati - o forse sarebbe meglio dire "assuefatti"- a vivere in un mondo globalizzato, in cui ogni paese è  talmente collegato al resto del mondo che i confini nazionali ormai sono solo un concetto fisico. È difficile, oggi, poter parlare di identità nazionale, nel bene o nel male. Perciò, quando capita di trovare un'opera che non riflette influenze di altre culture se non quella del popolo che l'ha creata, si può rimanere spiazzati. E, certo, anche affascinati.
Non troverete nessuno di questi temi in Gli anni dolci di Jiro Taniguchi, tratto da un romanzo di Hiromi Kawasaki - La cartella del professore, edito in Italia per Einaudi -, che narra di una tenera storia d'amore tra una donna ed il suo vecchio insegnante di liceo. Eppure vi invito a non sottovalutare questa introduzione; se mi seguirete nella recensione capirete perché. Buona lettura!

Tsukino è una donna sulla soglia dei quarant'anni. Non ha un compagno, ma la solitudine non le pesa: anzi, ama la sua libertà, il non dover rendere conto a nessuno delle proprie azioni.  Tra le sue abitudini preferite vi è mangiare fuori e bere sakè in un certo locale; locale frequentato abitualmente anche da un uomo di settant'anni che sembra conoscerla bene. È un suo vecchio professore. Nonostante gli anni di differenza, i due entrano presto in confidenza, cominciando ad uscire insieme. Un rapporto molto libero, privo di vincoli... Almeno all'apparenza. Perché, per quanto a lei possa sembrare assurdo, Tsukino comincia a provare qualcosa per quell'uomo distinto...

"Gli anni dolci" è un'opera giapponese. Pare un'ovvietà, eppure non lo è. La nazionalità degli autori alle volte è diversa dalla nazionalità dell'opera, e molti manga ne sono un esempio perfetto.  Si pensi, ad esempio,  al recente "Thermae Romae" di Mari Yamazaki, ottima fusione di Oriente ed Occidente. Lo stesso Taniguchi non ha mai nascosto il suo debito verso i fumetti occidentali, in particolare quelli francesi, evidente sia nel tratto sia in molti dei soggetti da lui affrontati.
Ma questo non si applica a "Gli anni dolci". Giapponesi sono i luoghi dove si muovono i protagonisti, tra locali tipici e mostre di calligrafia; giapponese è l'ambientazione, quasi sospesa nel tempo; giapponesi sono i personaggi, in particolare il vecchio professore; e sopratutto è inconfondibilmente e assolutamente giapponese il dipanarsi della storia d'amore tra i protagonisti. Il corteggiamento - se così lo vogliamo chiamare - del professore è blando, discreto. I loro appuntamenti sono più decisi dal caso che dalla loro volontà, ed i loro incontri non sono a cadenza regolare. Anche quando sono insieme, non c'è il minimo contatto fisico tra di loro. Lo si può notare persino dalle copertine: i due non camminano fianco a fianco. Il professore precede, Tsukino segue. Con queste premesse, perciò, non rimangano delusi gli amanti dei magniloquenti dialoghi amorosi: raramente i protagonisti si confesseranno i loro reciproci sentimenti. È un amore d'altri tempi, appartenete ad una cultura molto diversa dalla nostra.
Anche i personaggi si muovono su queste coordinate. Tsukino - anche voce narrante - lascia entrare il professore nella sua vita senza rendersi conto di quello che sta accadendo. Soltanto quando dovrà respingere l'amore di un suo coetaneo capirà che il settantenne è diventato una presenza indispensabile nella sua vita. Questo perché - come fa notare il professore - loro due sono, a dispetto delle apparenze, molto simili: la loro età anagrafica non coincide con quella reale, ed entrambi - sebbene sia difficile per loro ammetterlo - soffrono la solitudine. Eppure probabilmente sarebbero a disagio in un legame stabile, "tradizionale". E gli ostacoli non mancano: l'età avanzata del professore e, sopratutto, il fantasma della ex moglie di lui, ancora ben vivo nella sua mente.

Il tratto di Jiro Taniguchi si adatta alla perfezione alla storia, come confermato anche dall'autrice, Hiromi Kawasaki.  Le notazioni tecniche su retini, proporzioni e character design (ottimi i primi due, un po' standardizzato il terzo), sono sterili, nonché ripetute ormai tante volte nel corso di questa rubrica: più interessante l'opinione della creatrice dell'opera originale. A suo dire, Taniguchi ha compreso alla perfezione il carattere della protagonista, anche attraverso piccoli dettagli come la sua camera da letto. Difficile immaginare una critica più lusinghiera.

"Gli anni dolci" potrebbe essere un'opera più impegnativa del previsto per noi occidentali; visto sotto un'altra prospettiva il suo maggiore punto di forza può essere il suo tallone d'Achille. Chi fosse davvero appassionato alla cultura giapponese, comunque, dovrebbe tenere in seria considerazione questo titolo.  Per ora è tutto, cari amici: arrivederci alla prossima puntata de il Tempio degli Otaku!



venerdì 5 giugno 2015

Review: What Lot’s Wife Saw by Ioanna Bourazopoulou




What Lot's Wife Saw, Ioanna Bourazopoulou
Black and White Publishing
384 pages, £ 11.99 
What Lot’s Wife Saw è il primo romanzo tradotto in inglese della scrittrice greca vincitrice dell’Athens Prize for Literature 2008, Ioanna Bourazopoulou, che in patria ha già pubblicato altri cinque libri. Sebbene sia stato classificato come fantasy, il romanzo racchiude in sé elementi tipici del genere distopico, di quello d’avventura e della detective story (nonostante il protagonista non sia un vero e proprio investigatore), non disdegnando la satira politica e la componente sentimentale.

Sono passati 20 anni da quando si è aperta una faglia che ha rivelato l’esistenza di uno strano sale viola, un prodotto molto richiesto e ben pagato sul mercato. L’Europa è stata semisommersa dal Mar Mediterraneo e la popolazione si è rifugiata nei pressi del Mar Morto, dove lavora nelle saline. C’è una misteriosa società che si occupa della distribuzione del sale, la cosiddetta Settantacinque, ben più potente del governo e rinomata per esser riuscita a creare posti di lavoro per gli sfollati e a rimettere in moto l’economia. La Settantacinque è composta da persone che cercano di sfuggire al proprio passato, decise a scoprire chi ha ucciso il Governatore, morto in circostanze misteriose, con l’aiuto del compilatore di rebus del Times Phileas Book, il quale dovrà non solo risolvere il delitto, ma anche affrontare i fantasmi del suo passato.

Il romanzo è un viaggio alla scoperta della duplicità dell’animo umano: ogni personaggio è combattuto tra il passato e il presente. Molti sono assassini, criminali e ladri che nelle colonie conducono una mansueta esistenza da sottomessi, impauriti dalla possibilità di essere banditi, seppur tentati dalle vecchie abitudini. Inoltre, è facile identificarsi col protagonista, Phileas, appassionato di cruciverba e uomo che ne ha passate tante, a partire dalla morte dei genitori. Gli altri personaggi ci vengono presentati attraverso le lettere che Phileas studia per trovare il colpevole dell’assassinio, come se dovesse occuparsi del puzzle più complicato esistente al mondo, ossia l’Epistleword. Vengono affrontati, tra gli altri, temi scomodi quali il grande potere che la religione e le multinazionali hanno sulle persone e sui governi, una critica non troppo velata alla cattiva gestione di un paese come la Grecia, messo in ginocchio da una crisi dirompente che non si è potuta arginare.

Ho apprezzato molto la struttura epistolare del romanzo, ma credo che lo stile delle lettere sia troppo piatto e monotono e che confonda il lettore riguardo all’identità dei sospettati. Nonostante la descrizione del modo in cui i sospettati decidono di bruciare il corpo del Governatore sia davvero raccapricciante e fin troppo realistica – il paragone con Lovercraft è immediato –, le altre risultano alquanto scarne. Ho dovuto interrompere la lettura diverse volte a causa della pesantezza di alcune parti, forse proprio a causa dello stile molto descrittivo ma, tirando le somme, non si tratta di una cattiva lettura e credo che gli elementi negativi riscontrati possano dipendere dalla traduzione. Spesso l’esperienza di lettura risulta meno appagante quando non si è in grado di leggere il testo in lingua originale. Un po’ come leggere la Divina commedia in inglese o in francese: vanno via le rime, gli endecasillabi ben studiati, va via tutto il colore.


Voto: 




What Lot's Wife Saw, Ioanna Bourazopoulou
Black and White Publishing
384 pages, £ 11.99 
What Lot's Wife Saw is the first novel by Greek author and Athens Prize for Literature 2008 winner Ioanna Bourazopoulou translated into English, although it is the fifth of her literary production. Despite of being classified as a fantasy, the book mix up dystopian, adventure and detective stories - although the main character is not a real detective - typical elements, without leaving out a touch of political satire and romance.
Twenty years have passed since a fault line rifted, revealing the existence of a strange purple salt, a product well-paid on market. Europe has been swamped by the Mediterranean Sea and the population has taken refuge on the Dead Sea, working in the salt mines. There is a mysterious company that deals with the distribution of the salt, the so-called Seventy-five, far more powerful than the government. The Seventy-five is made up by people which are trying to escape their past and to discover who killed the Governor, who died in mysterious circumstances. The company works on the case with the help of The Time’s rebus compiler Phileas Book, which will not only solve the crime, but also face the ghosts from his past.

The novel is a journey into the duplicity of the human soul. Each character is torn between past and present. Many of them are murderers, criminals and thieves, who are living a subdued and meek life in the colonies, frightened by the possibility of being banned, although tempted by old habits. Furthermore, it’s easy to identify with the crossword enthusiast Phileas who has been through a lot, starting from his parents death. The other characters are introduced through the letters that Phileas studies to find the murderer, as if he is dealing with the most complicated puzzle in the world, namely the Epistleword. Uncomfortable topics such as the great power that religion and multinational companies have on people and governments are well showed - a not very concealed critique of the Greece mismanagement, crippled by an economic collapse that the Government wasn’t able to stem.


I really enjoyed the epistolary structure of the novel, but the letters are very similar in style and repetitive, confusing the reader about the identity of the suspects. Although the description of the way in which the suspects decide to burn the body of the Governor is really creepy and all too realistic - Lovecraft style -, the others were too essential. I had to stop reading many times because I found some parts a bit heavy, perhaps because of the descriptions – I have to admit I don’t like very much this kind of representation. Summing up, it's not a bad read and I believe that maybe some of the things I didn’t about the writing stile may be ascribed to the translation. You often lose a lot in the reading experience if you aren’t able to read a book in its original language. It is like reading Dante in English or in French: without the vernacular rhymes and hendecasyllables all the color is lost.


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