lunedì 19 gennaio 2015

Su Questo trenino a molla che si chiama il cuore di Loredana Lipperini




Questo trenino a molla che si chiama il cuore,
Loredana Lipperini
Editori Laterza, 174 pagine, 12.00 euro
C'è stato un tempo in cui scrivevo.
Ora non lo faccio più perché non mi ritengo all'altezza delle mie aspettative, o almeno questo è quello che mi racconto. Ma, nella mia breve esperienza, ho capito una cosa: scrivere significa vendere un po' della propria anima al Diavolo. Il Diavolo, in questo caso, non è una creatura stilizzata con sembianze caprine e barba a punta, ma una massa informe di persone – buone, cattive o neutre – a cui conferisci un devastante potere, quello di guardarti dentro. Da vicino. Fino a sfiorare, appunto, l'anima. Qualsiasi cosa sia, ogni volta che la penna si poggia sul foglio stai aprendo un varco tra te e il mondo. Lo senti quasi scorrere, un fluido che si dirama dal cuore e avanza nelle vene del braccio e arriva alla mano, e poi eccolo lì, tramutato in inchiostro, sulla pagina vuota. Scrivere è letale quanto uccidere. È la condivisione volontaria – e per questo suicida – della parte più intima e segreta di noi stessi. Qualcosa che gli altri non dovrebbero mai vedere.
Ho letto molti libri di Loredana Lipperini. Sono libri illuminanti, impegnati, ben scritti, competenti, dal piglio saggistico, chiaro, preciso.
Nessuno di loro è come Questo trenino a molla che si chiama il cuore. In quest'ultimo libro, che racchiude il diario, l'autobiografia, l'inchiesta, il reportage, c'è la vera Loredana. Non la conduttrice di Fahreheit su Radio3, o la giornalista di Repubblica. C'è la donna Loredana, la madre Loredana, la figlia Loredana, l'amica Loredana. È un libro che, conoscendo l'autrice di persona, mi ha toccato in diversi punti, mi ha raccontato più di quello che già sapevo, mi ha fatto riflettere. È un libro profondamente umano, lontano e vicino, privo di schemi. Lontano, perché parla di un passato di antiche dee, di Sibille, di valli marchigiane che stanno scomparendo sotto la forza delle ruspe – e la voce di Loredana sembra quella del vento, che sussurra come una volta era, e come adesso più non è. Vicino, perché sembra di sfiorare le corde di una donna diversa dalla sua immagine pubblica. A cominciare dai racconti dell'adolescenza e dell'infanzia, degli anni passati al paesello, ovvero Serravalle, da cui scapperà a diciannove anni, dai ricordi del padre morto, dai dileggi dei coetanei per quei quaderni scritti fitti – mai più romanzi –, passando anche per le speculazioni sul Quadrilatero, per le speranze degli abitanti in merito al lavoro e all'economia che porterà la Superstrada, finendo con le storie locali, i racconti, le antiche divinità soppiantate da un dio geloso.
Ma non si tratta soltanto di origini, di luoghi che cambiano, di persone, di vite, di cose che mutano - La smania di morte che mi sento addosso viene da un mondo che cambia sotto i miei occhi, perché trasmutare è morire, e la terra di mio padre e della mia infanzia e dell’infanzia dei miei figli sta trasmutando, e non è detto che infine rinasca in forma nuova. E insieme trasmutano le utopie, ammesso che ci siano ancora o ce ne sia ancora bisogno, e forse trasmuta anche una generazione, la mia, che in parte ha giocato con il potere e in parte ha aspirato a raggiungerlo e in parte se n’è infischiata.
È questa smania di morte che percorre tutto il libro e che vede Loredana al centro di una catena tra passato e futuro, il cui confine – è il confine la parola chiave, il limes, la via di mezzo, il limbo – è con tutta probabilità la scomparsa della preziosa amica e autrice Chiara Palazzolo. Prima e dopo la sua morte, in questo spartiacque robusto come una colata di cemento – lo stesso che sta ricoprendo la Valle – Loredana si trova sola con i suoi fantasmi. Neanche fantasmi è una parola scelta a caso. Si aggirano, come folletti, tra i boschi, nei sogni, nelle infinite possibilità dei “se”. Il fantasma di Chiara ma anche quello di Lara, l'eteronimo, la giovane, la ragazza, l'ingenua che non ha mai ingannato. Nei brani in cui Loredana racconta il suo rapporto con Lara, Lara Manni, c'è tanta di quella intimità che, leggendo, ho avuto l'impressione di violare qualcosa. Come se anche io avessi appiccato il fuoco con la fascina e attendessi con un ghigno delle spiegazioni dovute. Come se nascondessi, dietro la schiena, una pietra pronta a lapidare, e richiedessi impaziente queste giustificazioni che sono tardate ad arrivare. Ma occorre arrendersi e riconoscere che la realtà, e la verità, e le storie, sono sempre doppie, per quanto ci sforziamo a ricondurle in una sola.
Il doppio, il limes, le origini, la cerca, le Sibille, la Valle. Questo libro è un mazzo di tarocchi che traccia una mappa su cui si adagia quella dell'anima, del folclore, dei ricordi. Domande e dubbi si accavallano, fanno tentennare, provocano l'insonnia e forte è la sensazione che tutto stia cambiando, o forse è già cambiato, e ci siamo lasciati qualcosa alle spalle che non tornerà.
La poesia di Questo trenino a molla che si chiama il cuore è la poesia dei libri indimenticabili di Lara Manni, che io ho apprezzato molto prima di sapere, che vibravano di quella forza straordinaria

che univa il fantastico e la realtà. E la vita in fondo sta appunto lì, nella linea sottile tra l'uno e l'altro, e l'uno e l'altro cosa sono? La morte, il vuoto, la memoria, il sangue, la rinascita e, ancora, la Valle. 



1 commento:

  1. Ah, ma quindi ora possiamo dire liberamente che la Lippa e la Manni sono la stessa persona, senza che fangirl improvvisate morte di fama strombazzino minacce e querele a destra e manca?

    C'è gente che muore di fame, che perde il lavoro, e questa paracula continua a prendere il culo. Anni a censurare wikipedia perché riportava la semplice evidente verità, solo perché voleva essere lei a pubblicarci un libro apposta? Ma va'. A zappare, di corsa!

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