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Questo trenino a molla che si chiama il cuore,
Loredana Lipperini
Editori Laterza, 174 pagine, 12.00 euro
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C'è stato un tempo in cui scrivevo.
Ora non lo faccio più perché non mi
ritengo all'altezza delle mie aspettative, o almeno questo è quello
che mi racconto. Ma, nella mia breve esperienza, ho capito una cosa:
scrivere significa vendere un po' della propria anima al Diavolo. Il
Diavolo, in questo caso, non è una creatura stilizzata con sembianze
caprine e barba a punta, ma una massa informe di persone – buone,
cattive o neutre – a cui conferisci un devastante potere, quello
di guardarti dentro. Da vicino. Fino a sfiorare, appunto, l'anima.
Qualsiasi cosa sia, ogni volta che la penna si poggia sul foglio stai
aprendo un varco tra te e il mondo. Lo senti quasi scorrere, un
fluido che si dirama dal cuore e avanza nelle vene del braccio e
arriva alla mano, e poi eccolo lì, tramutato in inchiostro, sulla
pagina vuota. Scrivere è letale quanto uccidere. È la condivisione
volontaria – e per questo suicida – della parte più intima e
segreta di noi stessi. Qualcosa che gli altri non dovrebbero mai
vedere.
Ho letto molti libri di Loredana
Lipperini. Sono libri illuminanti, impegnati, ben scritti,
competenti, dal piglio saggistico, chiaro, preciso.
Nessuno di loro è come Questo trenino
a molla che si chiama il cuore. In quest'ultimo libro, che racchiude
il diario, l'autobiografia, l'inchiesta, il reportage, c'è la vera
Loredana. Non la conduttrice di Fahreheit su Radio3, o la giornalista
di Repubblica. C'è la donna Loredana, la madre Loredana, la figlia
Loredana, l'amica Loredana. È un libro che, conoscendo l'autrice di
persona, mi ha toccato in diversi punti, mi ha raccontato più di
quello che già sapevo, mi ha fatto riflettere. È un libro
profondamente umano, lontano e vicino, privo di schemi. Lontano,
perché parla di un passato di antiche dee, di Sibille, di valli
marchigiane che stanno scomparendo sotto la forza delle ruspe – e
la voce di Loredana sembra quella del vento, che sussurra come una
volta era, e come adesso più non è. Vicino, perché sembra di
sfiorare le corde di una donna diversa dalla sua immagine pubblica. A
cominciare dai racconti dell'adolescenza e dell'infanzia, degli anni
passati al paesello, ovvero Serravalle, da cui scapperà a
diciannove anni, dai ricordi del padre morto, dai dileggi dei
coetanei per quei quaderni scritti fitti – mai più romanzi
–, passando anche per le speculazioni sul Quadrilatero, per le
speranze degli abitanti in merito al lavoro e all'economia che
porterà la Superstrada, finendo con le storie locali, i racconti, le
antiche divinità soppiantate da un dio geloso.
Ma non si tratta soltanto di origini,
di luoghi che cambiano, di persone, di vite, di cose che mutano - La
smania di morte che mi sento addosso viene da un mondo che cambia
sotto i miei occhi, perché trasmutare è morire, e la terra di mio
padre e della mia infanzia e dell’infanzia dei miei figli sta
trasmutando, e non è detto che infine rinasca in forma nuova. E
insieme trasmutano le utopie, ammesso che ci siano ancora o ce ne sia
ancora bisogno, e forse trasmuta anche una generazione, la mia, che
in parte ha giocato con il potere e in parte ha aspirato a
raggiungerlo e in parte se n’è infischiata.
È questa smania di morte che percorre
tutto il libro e che vede Loredana al centro di una catena tra
passato e futuro, il cui confine – è il confine la parola
chiave, il limes, la via di mezzo, il limbo – è con tutta
probabilità la scomparsa della preziosa amica e autrice Chiara
Palazzolo. Prima e dopo la sua morte, in questo spartiacque robusto
come una colata di cemento – lo stesso che sta ricoprendo la Valle
– Loredana si trova sola con i suoi fantasmi. Neanche fantasmi
è una parola scelta a caso. Si aggirano, come folletti, tra i
boschi, nei sogni, nelle infinite possibilità dei “se”. Il
fantasma di Chiara ma anche quello di Lara, l'eteronimo, la giovane,
la ragazza, l'ingenua che non ha mai ingannato. Nei brani in cui
Loredana racconta il suo rapporto con Lara, Lara Manni, c'è tanta di
quella intimità che, leggendo, ho avuto l'impressione di violare
qualcosa. Come se anche io avessi appiccato il fuoco con la fascina e
attendessi con un ghigno delle spiegazioni dovute. Come se
nascondessi, dietro la schiena, una pietra pronta a lapidare, e
richiedessi impaziente queste giustificazioni che sono tardate ad
arrivare. Ma occorre arrendersi e riconoscere che la realtà, e la
verità, e le storie, sono sempre doppie, per quanto ci sforziamo a
ricondurle in una sola.
Il doppio, il limes, le origini, la
cerca, le Sibille, la Valle. Questo libro è un mazzo di tarocchi che
traccia una mappa su cui si adagia quella dell'anima, del folclore,
dei ricordi. Domande e dubbi si accavallano, fanno tentennare,
provocano l'insonnia e forte è la sensazione che tutto stia
cambiando, o forse è già cambiato, e ci siamo lasciati qualcosa
alle spalle che non tornerà.
La poesia di Questo trenino a molla che
si chiama il cuore è la poesia dei libri indimenticabili di Lara
Manni, che io ho apprezzato molto prima di sapere, che vibravano di
quella forza straordinaria
che univa il fantastico e la realtà. E
la vita in fondo sta appunto lì, nella linea sottile tra l'uno e
l'altro, e l'uno e l'altro cosa sono? La morte, il vuoto, la memoria,
il sangue, la rinascita e, ancora, la Valle.
Ah, ma quindi ora possiamo dire liberamente che la Lippa e la Manni sono la stessa persona, senza che fangirl improvvisate morte di fama strombazzino minacce e querele a destra e manca?
RispondiEliminaC'è gente che muore di fame, che perde il lavoro, e questa paracula continua a prendere il culo. Anni a censurare wikipedia perché riportava la semplice evidente verità, solo perché voleva essere lei a pubblicarci un libro apposta? Ma va'. A zappare, di corsa!