giovedì 29 gennaio 2015

Recensione: Le mie due vite di Jo Walton




Le mie due vite, Jo Walton
Gargoyle Books
314 pagine, 18.00 euro
 Anche l'Italia ha potuto conoscere, grazie alla casa editrice Gargoyle, una delle maggiori autrici attuali di fantasy e fantascienza: Jo Walton, già insignita nella sua carriera di premi come il Nebula Ward o lo Hugo Award. Quest'anno è uscita la sua ultima fatica, Le mie due vite, un romanzo che riprende a parlare di tematiche a lei care come l'ucronia o le questioni sociali, e che allo stesso tempo si pone in un'ottica intimista che potrebbe attirare anche coloro che non sono amanti del fantasy. Lo spunto di partenza è, infatti, una situazione che tutti abbiamo provato nella vita: il chiedersi cosa sarebbe successo se, in un determinato momento, avessimo fatto una scelta piuttosto che un'altra. Un progetto ambizioso, quindi, capace di creare alte aspettative nel lettore. Sarà riuscita a realizzarle?

2015. Patricia si ritrova in una casa di riposo, pur essendo circondata dall'affetto di figli e nipoti. È affetta da demenza senile e, stando alla cartella clinica, appare MC, molto confusa. La donna, infatti, non fa solo fatica a ricordarsi della sua vita passata: non sa quale vita realmente le appartenga tra due alternative inconciliabili che si alternano nella sia mente. In una si chiama Trish e ha quattro figli, avuti da un marito incapace di darle amore; in un'altra ne ha tre, cresciuti insieme alla sua compagna, Bee, la chiama Pat. Anche il mondo esterno, poi, non sembra lo stesso.
Quale versione corrisponde alla verità? E sopratutto, quando è cominciata la dicotomia tra l'infelice Trish e la realizzata Pat? In un raro momento di lucidità la vecchia rintraccia quel momento fatidico: l'ultimatum datole dal suo fidanzato, Mark, che le ingiungeva di sposarsi "ora o mai più". La risposta cambierà la sorte sia di Patricia sia del mondo intero.

Avevamo accennato, prima, alle aspettative create da questa premessa così inusuale. E spiace dirlo, ma queste aspettative sono state fortemente disattese. Sintetizzare due vite, infatti, - senza dimenticare la cornice storica del romanzo - richiede più delle trecento pagine qui impiegate, e una struttura piuttosto robusta. Purtroppo, invece, ci troviamo di fronte a un ritmo di narrazione velocissimo, che per esigenze di spazio sacrifica qualunque cosa trovi sul suo cammino.
Passaggi fondamentali nella vita di Trish e Pat vengono liquidati in poche pagine o persino in poche righe: per la prima è il caso, ad esempio, della sua liberazione dal giogo del marito, mentre per la seconda è emblematico come viene delineato l'inizio della sua relazione con Bee. "Frettoloso" è un eufemismo, visto che non ci viene nemmeno mostrato come le due si conoscono e cominciano a entrare in confidenza. A maggior ragione, quindi, appaiono inspiegabili alcune lungaggini come il dettagliato elenco dei negozi presenti in una città dove vanno a vivere Mark e Trish o la cronaca dei numerosi viaggi di Pat a Firenze.
Lo stesso vale per la parte fantascientifica del romanzo, che viene delineata soltanto quando ha un reale impatto sulla vita delle protagoniste e, alle volte, scade in cambiamenti talmente insignificanti da sembrare meri divertissement (ad esempio il Principe Carlo che sposa Camilla negli anni '70). Perplime infine che, ad eccezione delle prime ed ultime pagine, la scena non si sposti mai su Patricia vecchia, che non arriva mai ad affrontare seriamente il suo problema.

Naturale che a farne le spese siano sopratutto i personaggi, piuttosto tipizzati. La contrapposizione Mark/Bee, ad esempio, è tutta a vantaggio della seconda, che sembra essere priva di difetti; l'altro, invece, non ha alcun lato positivo. I timidi spunti di introspezione psicologica arrivano troppo tardi per fare effetto sul lettore. In chiave minore si può dire lo stesso per il resto del cast, dai figli indistinguibili tra loro a Michael, il padre biologico dei bambini di Pat e Bee.
Quello che davvero fa la differenza, però, è la capacità delle due protagoniste di resistere alle avversità della vita. Niente sembra smuoverle, a tal punto che si arriva quasi a dubitare della loro capacità di provare empatia. Non importa quali vicende debbano affrontare, dalla morte del fratello al lesbismo, - nonostante sia cominciata negli anni '50, Pat e Bee non hanno problemi nel far accettare al mondo la loro storia d'amore - fino ad eventi ancora più drammatici. Dopo poche righe di turbamento sono pronte a riaffacciarsi alla vita, sotto gli occhi attoniti del lettore, che si aspettava delle manifestazioni di dolore più profonde. Logicamente in questo modo è difficile che si crei una reale connessione tra il pubblico e i personaggi.

A ben guardare, però, la ragione di questi difetti è una sola: lo stile di Jo Walton. Non è un'esagerazione dire che probabilmente non ci sono, nel romanzo, scene mostrate, e non raccontate. I sentimenti dei personaggi o non vengono analizzati del tutto oppure vengono descritti direttamente al lettore: la reazione di Trish dopo un gesto particolarmente crudele di Mark viene sintetizzata con un "...E lei lo odiava per questo", un lungo ringraziamento al Signore viene spiegato con un ridondante "Pregò..." e quello che Pat prova la prima volta con Bee viene descritto soltanto come "importante". Difficile giustificare tutto questo con il ridotto spazio a disposizione.

Lo spunto, intelligente e originale, de "Le mie due vite" non è sfruttato a dovere dall'autrice, vittima dei propri limiti artistici. Non è da escludersi che la stessa storia, con una durata almeno raddoppiata e delle mani più capaci, sarebbe stata decisamente più notevole. Ma poiché noi non possiamo vivere questa particolare sliding door, dovremo accontentarci di leggere - chi lo desidera - quella di Patricia.


Voto: 





sabato 24 gennaio 2015

Recensione: Fiabe Lapponi (editrice Iperborea)



Fiabe Lapponi, Iperborea
192 pagine, 15.00 euro 
Iperborea ci regala una serie di volumi dedicati al mondo delle fiabe scandinave, sospese tra antica tradizione popolare, eventi magici e quel tocco di macabro e violenza tipico dei popoli del Nord. In questa prima raccolta troviamo i racconti e le leggende dei lapponi (anche detti sami), minoranza nomade stanziata tra Svezia, Finlandia, Norvegia e Russia, e da sempre dotata di una forte indipendenza e caratterizzazione culturale. Le versioni riportate sono state raccontate e trascritte intorno all'Ottocento da filologi e studiosi che durante il romanticismo si adoperavano con ogni mezzo per rendere note le tradizioni e le storie ancestrali del popolo a cui appartenevano, convinti che la conoscenza del passato potesse ancora influire positivamente sul presente. Questa trascrizione su carta delle fiabe era stata un'operazione molto simile a quella che avevano fatto i fratelli Grimm in Germania per salvaguardare un patrimonio culturale e una particolarità linguistica che non andava dimenticata. Leggiamo quindi di imprese miracolose, matrimoni, storie d'amore, oggetti magici, rapimenti, trasformazioni; a fianco delle avventure fantastiche troviamo anche tematiche di tutti i giorni, concrete e realistiche, che descrivono un popolo alle prese con una natura a tratti ostile. I personaggi che incontriamo sono uomini e donne con caratteristiche comuni, ma anche esseri sovrannaturali e magici, come streghe e folletti, giganti, maghi, animali parlanti ed eroi con poteri miracolosi; oltre ai classici protagonisti delle fiabe europee troviamo creature appartenenti alla tradizione sami come gli Stallo, orchi terribili ma piuttosto sciocchi che entrano spesso in conflitto con l'uomo, e le vecchie Gieddegæš, capaci di predire il futuro e dare consigli.

Alcune fiabe sono brevi, hanno un'origine più antica e uno stile più semplice e sono basate su un unico tema per lo più legato alla tradizione popolare, a tratti ironico e con un finale inverosimile e tronco; altre sono più lunghe, hanno uno stile più elaborato e vario, presentano dialoghi più serrati e raccontano una storia vera e propria, spesso un miglioramento del protagonista, e ricordano sia le fiabe dei fratelli Grimm che quelle francesi di Perrault, fondendo in questo modo tradizioni diverse e lontane. È un'emozione ritrovare l'origine più antica di alcune fiabe che conosciamo e scoprire la forte somiglianza per esempio tra La fanciulla che cercava i suoi fratelli e I cigni selvatici di Andersen, già rielaborazione de I sei cigni dei Grimm. È divertente ancora capire che in fondo ne Il ragazzo povero e la volpe si trova la stessa idea che sta al base de Il gatto con gli stivali di Perrault. Anders Buhara, infine, non è altro che una versione più scarna e antica di quello che sarà poi I tre capelli del diavolo: in questo caso sicuramente il tempo e la narrazione orale hanno arricchito la fiaba di nuovi elementi.
A differenza poi della tradizione più vicina a noi abbiamo fiabe con frequenti riferimenti alla religione e quindi al diavolo, al maligno, agli angeli, a Dio e Gesù, ma anche fiabe pagane, dove si parla di alberi magici e molto altro. La conversione al cristianesimo in queste zone è stata piuttosto tarda e religioni diverse hanno spesso convissuto, a volte mescolandosi l'una all'altra: per questo quelle che inizialmente erano tematiche pagane si sono trasformate a volte in racconto cristiano, semplicemente cambiando le divinità di un tempo con quelle nuove che la conversione proponeva.

Le fiabe sono state tradotte dal danese da Bruno Berni, insegnante di letteratura e ricercatore nel campo degli studi germanici, che ha anche curato personalmente l'edizione e scritto una interessante postfazione dove troviamo una datazione e una spiegazione esauriente di temi e tradizioni che troviamo nelle fiabe lapponi. Le pagine sono inoltre arricchite da suggestive illustrazioni in bianco e nero tratte dalle incisioni di John Andreas Savio, famoso artista norvegese che ritraeva molto spesso paesaggi e scene del profondo nord.

In conclusione Fiabe lapponi è un volume piacevole e interessante, che rappresenta la versione letteraria di un patrimonio culturale notevole che per fortuna è giunto fino a noi in buone condizioni. Quello che affascina di questa raccolta è soprattutto la crudezza, la semplicità e a tratti la durezza e il coraggio di alcuni finali che non temono affatto la mancanza del lieto fine, arrivando a non sentirne proprio il bisogno: riescono in questo modo a dire la loro in modo realistico e a tratti ironico su quello che sono la vita umana e le conseguenze dei nostri errori, portando fino a noi la saggezza popolare e l'accortezza dei tempi che furono.

Voto: 



lunedì 19 gennaio 2015

Su Questo trenino a molla che si chiama il cuore di Loredana Lipperini




Questo trenino a molla che si chiama il cuore,
Loredana Lipperini
Editori Laterza, 174 pagine, 12.00 euro
C'è stato un tempo in cui scrivevo.
Ora non lo faccio più perché non mi ritengo all'altezza delle mie aspettative, o almeno questo è quello che mi racconto. Ma, nella mia breve esperienza, ho capito una cosa: scrivere significa vendere un po' della propria anima al Diavolo. Il Diavolo, in questo caso, non è una creatura stilizzata con sembianze caprine e barba a punta, ma una massa informe di persone – buone, cattive o neutre – a cui conferisci un devastante potere, quello di guardarti dentro. Da vicino. Fino a sfiorare, appunto, l'anima. Qualsiasi cosa sia, ogni volta che la penna si poggia sul foglio stai aprendo un varco tra te e il mondo. Lo senti quasi scorrere, un fluido che si dirama dal cuore e avanza nelle vene del braccio e arriva alla mano, e poi eccolo lì, tramutato in inchiostro, sulla pagina vuota. Scrivere è letale quanto uccidere. È la condivisione volontaria – e per questo suicida – della parte più intima e segreta di noi stessi. Qualcosa che gli altri non dovrebbero mai vedere.
Ho letto molti libri di Loredana Lipperini. Sono libri illuminanti, impegnati, ben scritti, competenti, dal piglio saggistico, chiaro, preciso.
Nessuno di loro è come Questo trenino a molla che si chiama il cuore. In quest'ultimo libro, che racchiude il diario, l'autobiografia, l'inchiesta, il reportage, c'è la vera Loredana. Non la conduttrice di Fahreheit su Radio3, o la giornalista di Repubblica. C'è la donna Loredana, la madre Loredana, la figlia Loredana, l'amica Loredana. È un libro che, conoscendo l'autrice di persona, mi ha toccato in diversi punti, mi ha raccontato più di quello che già sapevo, mi ha fatto riflettere. È un libro profondamente umano, lontano e vicino, privo di schemi. Lontano, perché parla di un passato di antiche dee, di Sibille, di valli marchigiane che stanno scomparendo sotto la forza delle ruspe – e la voce di Loredana sembra quella del vento, che sussurra come una volta era, e come adesso più non è. Vicino, perché sembra di sfiorare le corde di una donna diversa dalla sua immagine pubblica. A cominciare dai racconti dell'adolescenza e dell'infanzia, degli anni passati al paesello, ovvero Serravalle, da cui scapperà a diciannove anni, dai ricordi del padre morto, dai dileggi dei coetanei per quei quaderni scritti fitti – mai più romanzi –, passando anche per le speculazioni sul Quadrilatero, per le speranze degli abitanti in merito al lavoro e all'economia che porterà la Superstrada, finendo con le storie locali, i racconti, le antiche divinità soppiantate da un dio geloso.
Ma non si tratta soltanto di origini, di luoghi che cambiano, di persone, di vite, di cose che mutano - La smania di morte che mi sento addosso viene da un mondo che cambia sotto i miei occhi, perché trasmutare è morire, e la terra di mio padre e della mia infanzia e dell’infanzia dei miei figli sta trasmutando, e non è detto che infine rinasca in forma nuova. E insieme trasmutano le utopie, ammesso che ci siano ancora o ce ne sia ancora bisogno, e forse trasmuta anche una generazione, la mia, che in parte ha giocato con il potere e in parte ha aspirato a raggiungerlo e in parte se n’è infischiata.
È questa smania di morte che percorre tutto il libro e che vede Loredana al centro di una catena tra passato e futuro, il cui confine – è il confine la parola chiave, il limes, la via di mezzo, il limbo – è con tutta probabilità la scomparsa della preziosa amica e autrice Chiara Palazzolo. Prima e dopo la sua morte, in questo spartiacque robusto come una colata di cemento – lo stesso che sta ricoprendo la Valle – Loredana si trova sola con i suoi fantasmi. Neanche fantasmi è una parola scelta a caso. Si aggirano, come folletti, tra i boschi, nei sogni, nelle infinite possibilità dei “se”. Il fantasma di Chiara ma anche quello di Lara, l'eteronimo, la giovane, la ragazza, l'ingenua che non ha mai ingannato. Nei brani in cui Loredana racconta il suo rapporto con Lara, Lara Manni, c'è tanta di quella intimità che, leggendo, ho avuto l'impressione di violare qualcosa. Come se anche io avessi appiccato il fuoco con la fascina e attendessi con un ghigno delle spiegazioni dovute. Come se nascondessi, dietro la schiena, una pietra pronta a lapidare, e richiedessi impaziente queste giustificazioni che sono tardate ad arrivare. Ma occorre arrendersi e riconoscere che la realtà, e la verità, e le storie, sono sempre doppie, per quanto ci sforziamo a ricondurle in una sola.
Il doppio, il limes, le origini, la cerca, le Sibille, la Valle. Questo libro è un mazzo di tarocchi che traccia una mappa su cui si adagia quella dell'anima, del folclore, dei ricordi. Domande e dubbi si accavallano, fanno tentennare, provocano l'insonnia e forte è la sensazione che tutto stia cambiando, o forse è già cambiato, e ci siamo lasciati qualcosa alle spalle che non tornerà.
La poesia di Questo trenino a molla che si chiama il cuore è la poesia dei libri indimenticabili di Lara Manni, che io ho apprezzato molto prima di sapere, che vibravano di quella forza straordinaria

che univa il fantastico e la realtà. E la vita in fondo sta appunto lì, nella linea sottile tra l'uno e l'altro, e l'uno e l'altro cosa sono? La morte, il vuoto, la memoria, il sangue, la rinascita e, ancora, la Valle. 



venerdì 16 gennaio 2015

Recensione: Anime baltiche di Jan Brokken



Anime baltiche, Jan Brokken
Iperborea
512 pagine, 19.50 euro
Anime baltiche è un libro a metà tra letteratura di viaggio e tematiche biografiche, colorato e arricchito da uno stile vario e ispirato che va quasi sempre dritto al cuore. L'autore Jan Brokken passa con maestria dalla narrazione delle vite dei personaggi famosi citati di capitolo in capitolo alle descrizioni profonde e dotate di anima dei luoghi che incontra nel suo vagabondare tra Estonia, Lettonia e Lituania. Il lettore si appassiona facilmente ai resoconti dei suoi viaggi, considerati anche un modo per crescere spiritualmente e arricchirsi in una incessante ricerca di se stessi. Lo scrittore esplora più di un secolo di storia e ripercorre con emozione i sentieri solcati tempo prima dai suoi protagonisti, intervistando e frequentando chiunque gli possa dare una spiegazione ulteriore dei vari vissuti. Grazie all'utilizzo di fonti come documenti personali, lettere o testimonianze dirette, scopriamo aspetti dei personaggi di cui non sapevamo nulla e sfumature che ignoravamo. Ne nasce così una vivida descrizione dei popoli baltici, riservati ma cultori dell'ospitalità, così orgogliosi della propria anima tanto quanto può esserlo solo una nazione multiculturale che ha sofferto e che è ancora alla ricerca di una propria libertà e identità definitiva.

Accompagniamo lo scrittore per le vie di Riga, Vilnius e Tallin, città a metà tra anima balto-tedesca, slava ed ebraica, che conservano la malinconia di secoli di tormenti, marchiati a fuoco negli occhi e suoi corpi di uomini e donne finiti per esempio nei campi di lavoro in Siberia. Queste città hanno cambiato spesso nome e in parte caratteristiche a seconda dello stato di cui di volta in volta facevano parte: basta pensare a Vilnius che si chiamava così in russo e lituano ma era Wilno in polacco, Wilna in tedesco, Vilné o Wilne in yiddish, oppure alla Königsberg prussiana di Immanuel Kant e Hannah Arendt, distrutta da anni di guerre e ribattezzata Kaliningrad, con tanto di casinò e locali notturni negli anni '90 sotto El'cin. La storia dei popoli baltici appare inoltre intrecciata al destino degli ebrei, perseguitati dai tedeschi ma ancor prima dai russi e strappati quasi interamente dalla città di Vilnius, dove manca un intero quartiere.

Jan Brokken, figlio come tanti dei suoi protagonisti di un padre che aveva patito la guerra, affronta un viaggio per arrivare a se stesso, ricordando "la difficoltà di crescere all'ombra di una guerra che non si è vissuta". Tra le citazioni iniziali del libro ne abbiamo anche una tratta direttamente da Padri e figli di Turgenev: "dopo tutto, un figlio non è il giudice di suo padre...". Troviamo infatti in Anime baltiche un rapporto stretto e a volte doloroso tra padri e figli, che cercano di perdonarsi l'un l'altro ma spesso non vi riescono: ricordiamo per esempio la rivoluzione di Sergej Ejzenštejn contro il padre architetto fedele a Nicola II, o del violinista Gidon Kremer nei confronti del padre ebreo che soffriva ancora le ingiustizie subite dal suo popolo.
L'autore dimostra di saper comprendere con profondità il cuore degli artisti, siano essi musicisti, pittori o scrittori: questi conservavano i traumi subiti in patria e li rielaboravano poi sotto forma di una musica, di un quadro o di un romanzo. Alcuni come Rothko e Gary vivevano lontano, sposavano una donna americana o straniera, si creavano una vita alternativa altrove ma finivano spesso per rimanere degli estranei per il loro nuovo paese.

Gli uomini e le donne che lo scrittore incontra e i personaggi famosi a cui sono dedicati i vari capitoli sono descritti con precisione, sia negli aspetti positivi che in quelli negativi: parlano poco, non abbiamo infatti molti dialoghi, ma riescono a trasmettere le loro emozioni grazie anche a una sapiente scelta di discorsi, aneddoti e frasi molto significativi e caratteristici. Tra tutti i protagonisti spiccano per pathos, drammaticità e forza espressiva il noto regista sovietico Sergej Ejzenštejn, lo scrittore francese d'origine lituana Romain Gary e il pittore emigrato Mark Rothko. Stupisce anche la storia del musicista Gidon Kremer, raccontata come un lungo, malinconico ma convinto assolo di violino.

Lo stile è variegato ma perfettamente omogeneo nelle sue diversità: Brokken è molto concreto e oggettivo ma sa essere anche incredibilmente poetico e ispirato. Riesce in questo modo a farci percepire emotivamente le vite e i dolori dei suoi protagonisti, senza mai essere però troppo calcato o invadente.
L'autore ci regala descrizioni vibranti e poetiche della natura baltica, solcata da cieli rossi al tramonto, dalla terra scura e dal verde cupo dei boschi, che riconosciamo nei quadri astratti di Rothko e che si riflette nei racconti e nelle anime dei personaggi che ha visto nascere e a volte scappare. Il volume è inoltre arricchito da fotografie dei protagonisti, dei suggestivi luoghi visitati e da documenti d'epoca, che contestualizzano ulteriormente le testimonianze.

In definitiva Anime baltiche è un libro affascinante, dedicato soprattutto agli appassionati della storia del '900, in particolare agli slavisti o a chi conosca già i personaggi trattati e voglia scoprire nuovi aneddoti e punti di vista. Unica minima pecca tra le quasi cinquecento pagine di cui è composto il libro è forse la velocità con cui in alcuni capitoli lo scrittore passa da una tematica all'altra, senza lasciare al lettore la possibilità di abituarsi alla nuova ambientazione e dando per scontati alcuni passaggi. Per lo stile a tratti emotivo e intrigante dell'autore e l'interpretazione così precisa e suggestiva dell'anima baltica, questo volume può comunque piacere anche al lettore neofita, a chi ama i resoconti dettagliati e poetici di viaggi e ai cultori delle biografie di grandi uomini e grandi donne del nostro tempo.

Voto: 







giovedì 15 gennaio 2015

Recensione: Il palazzo d'inverno di Eva Stachniak



Beat
416 pagine
13,90 euro
Il romanzo storico è un genere che mi ha sempre affascinato, perché capace di riportare in auge eventi del
 passato e donargli una chiave di lettura diversa, o di svelare insoliti accadimenti e catturare lo spirito di un tempo in modo ben più  coinvolgente di una biografia. Ciò che amo di più è  il connubio fondamentale, per chi è anche devoto ai "vecchi" classici, tra la materia "antica" e l'impianto stilistico "moderno". Forse è per questo che ho fortemente apprezzato il romanzo di Eva Stachniak, primo di una saga dedicata alla zarina Caterina, e la sua descrizione degli intrighi di corte e dei rovesciamenti di potere che si susseguono ne Il palazzo d'inverno. Si tratta di una storia tutta al femminile volta a dimostrare che, in un paese per antonomasia fondato sul modello patriarcale quale la Russia, a fare la storia sono state per molti secoli  proprio le donne, non solo reggenti, ma addirittura imperatrici, come nel caso di Elisabetta e Caterina. Protagonista del romanzo è Varvara, figlia di un rilegatore di libri, che eleverà il suo status nel corso della narrazione diventando prima una "lingua", una spia dell'imperatrice, e arrivando poi ai più alti ranghi della sfera sociale. Contrariamente a qualsiasi aspettativa, non abbiamo davanti un'arrampicatrice sociale ma piuttosto una donna che si trova a dover scendere a compromessi con l'imperatrice - che ne combinerà il matrimonio con un soldato -, scoprendo nella granduchessa Caterina, moglie del successore di Elisabetta, una ragazza sola e osteggiata, di cui diverrà l'unica confidente e l'unica possibilità di riscatto.

Lo stile della Stachniak è interessante, per molti versi non  dissimile da quello di Philippa Gregory - grande personalità del genere storico -, eppure singolare. La narrazione in prima persona non rompe la linearità con la storia e rende tutto più coinvolgente,  lasciando tuttavia al lettore la propria interpretazione. Particolare è il fatto che i personaggi del romanzo non possono essere classificati in base alla bontà o cattiveria delle loro azioni, ma piuttosto a seconda della capacità di agire e quella di farsi valere. Il mondo del Palazzo d'inverno è dunque popolato da personalità dominanti o, viceversa, inetti - come il granduca Pietro, marito di Caterina. 

Non ci sono buonismi, né Varvara (Barbara in polacco), voce narrante, avanza mai giudizi morali su ciò che vede e sente nelle alcove segrete dei regnanti. Ognuno è costretto a vivere una vita con doppia identità: da un lato, i personaggi femminili si mostrano esempi di virtù e temperanza, dall'altro celano il desiderio di una vita diversa, riuscendo a farlo prevalere poi su tutto il resto. Al contrario, gli uomini vivono in funzione del potere concesso dalle donne - sono un esempio il marito di Varvara, che non riesce a farsi strada nella carriera militare, e gli amanti di Elisabetta, semplici pupazzi che vorrebbero influenzare le sorti della Russia ma non ne sono capaci - e non sono capaci di venir fuori da questo circolo vizioso. 

Altro tema fondamentale è quello dell'integrazione da parte dello straniero: Caterina nasce infatti come principessa tedesca, con un nome più "occidentale" (in realtà si chiama Sofia), e la sua estraneità al mondo russo, nonché la provenienza dai territori nemici, la mette subito in cattiva luce alla corte, relegandola a ruolo di moglie e ventre per generare eredi. Si parla dunque di maternità, soprattutto di quella negata, visto che Caterina non potrà prendersi cura del figlio, "sequestratole" dall'imperatrice, che al contrario non ha mai potuto generare un figlio naturale. Dunque sono tante le dicotomie fondanti della storia, dove tutti sono insieme personaggi e antagonisti, in un tripudio di sfarzi e curiosità di cui la scrittrice ci rende partecipe: conosciamo i riti di palazzo, i problemi della sua ristrutturazione, gli sfizi dei regnanti e particolari sulle feste - c'è n'è una risalente a ben prima della Rivoluzione Francese durante la quale le donne indossano abiti maschili militari, cosa impensabile ai tempi. Mi riservo quest'ultima parte per dire che, pur non apprezzando solitamente i libri della Beat dal punto di vista della rilegatura e della stampa (avevo mosso la critica con la mia recensione di Angel), ho notato che per Il palazzo d'inverno si è usato un stile tipografico diverso che ha reso la lettura molto più leggera, quindi mi auguro che sia davvero un cambio di rotta da parte della casa editrice che sicuramente gioverà al suo pubblico. 
Un romanzo ricco e particolare, coinvolgente e capace di catturare: ecco perché vi consiglio vivamente di leggerlo.  Ma vi avverto... Una volta iniziato, vorrete subito conoscerne il seguito che, essendo ancora inedito in Italia, dovrete attendere ancora qualche tempo per leggere. 

Voto: 

mercoledì 14 gennaio 2015

Christmas Tales 2015: i premiati




Buongiorno lettori,
mi scuso per la prolungata assenza dovuta, come al solito, agli impegni universitari. Ho dato un esame giusto ieri e sto studiando per l'ultimo, quindi è probabile che l'assenza si reitererà, almeno tra gennaio e febbraio.
Ma, bando alle ciance, vi annuncio i vincitori di #christmastales15, l'iniziativa che si è conclusa il 6 gennaio. Ringrazio tutti per l'accorata partecipazione e l'impegno profuso nello scrivere i finali alternativi: è stato bello leggerli e rendersi conto del vostro impegno, quindi grazie ancora a chi ha partecipato!
Per premiare appunto questa affluenza, abbiamo deciso di farvi una sorpresa: le copie fuori commercio autografate in palio non sono più tre, ma cinque.
Ci saranno quindi cinque lettori che riceveranno a casa Quella vita che ci manca. In base al giudizio mio e dell'autrice Valentina D'Urbano, i commenti premiati sono quelli di:

Michele Galluzzo

Noemi Chesini

Serena Marchetti

Premio originalità a:

PattyOnTheRollercoaster

ACARUSS


Vi prego di spedire il vostro indirizzo a dpinwonderland@gmail.com

Nel caso non mi pervenissero gli indirizzi entro venti giorni a partire da oggi, saranno annunciati nuovi vincitori.

Infine vi lascio con il finale vero pensato da Valentina e, rinnovandovi i miei ringraziamenti, auguro a tutti un buon 2015 (in ritardo!) con la speranza di ritrovarvi alla prossima iniziativa ;) 



«L’ultima volta, va bene piccola? Facciamo che è il mio regalo di Natale per te. Perché ti voglio bene, lo sai, no? Lo sai che ti voglio benissimo, ma questa è l’ultima volta che te la do a credito, perché io mi fido di te, ma dopo mi devi ridare tutto con gli interessi, che se mi arrabbio sono un sacco di guai per tutti, eh piccola? Lo sai piccola come mi arrabbio, no?»
Le fa scivolare l’incarto argentato nella tasca della giacca, ed Erika sospira e quasi trema.
Adesso lui la scioglie dall’abbraccio, scuote la testa, si volta e se ne va.
Le ha dato due grammi pieni, perché quella è talmente tossica, talmente sfondata dall’eroina che due grammi le bastano per una botta appena.
Ma stavolta, gliela deve pagare.

lunedì 5 gennaio 2015

Commento al film: Lo Hobbit – La Battaglia delle Cinque Armate



Il 17 dicembre 2014 ha rappresento per molti una data fondamentale della storia del cinema. Ha visto infatti l’uscita dell’ultimo attesissimo lavoro di Peter Jackson e Guillermo del Toro: Lo Hobbit – La Battaglia delle Cinque Armate.
Il titolo rappresenta l’epilogo della seconda trilogia diretta dal regista neozelandese e ambientato nel mondo inventato dallo scrittore inglese J.R.R. Tolkien, incentrato sulla storia narrata nell’omonimo libro.
In questo terzo capitolo le vicissitudini della compagnia dei tredici Nani, dello Hobbit Bilbo Baggins e dello Stregone Gandalf giungono al termine, toccando finalmente l’apice nel tema guerresco della trilogia.
Gli scontri armati costituiscono infatti il leitmotiv dei 144 minuti, in cui sono compresi i differenti duelli tra eroi, la lunga battaglia delle Cinque Armate – che dà nome alla pellicola – e lo scontro con il drago, che abbiamo visto librarsi nel cielo delle Terre Selvagge alla fine de Lo Hobbit – La Desolazione di Smaug.
Come accade di solito, è sempre un finale di serie sorprendente che riesce a far cambiare idea – anche radicalmente – su una storia.
La battaglia delle Cinque Armate risolleva le sorti e riporta a un livello accettabile una trilogia che ha destato molto critiche, spesso tacciata di aver tradito gli intenti letterari di Tolkien.

Diverso il discorso per il comparto tecnico: la regia è sublime, le colonne sonore sono composte da un maestro del genere (Howard Shore), gli effetti speciali, il cast, il trucco, gli abiti, i set sono scelti con la massima cura e rendono al meglio sul grande schermo, facendo onore agli sforzi per produrre La Battaglia delle Cinque Armate.
I problemi che, con un occhio molto critico, si potrebbero additare, sono limitati solo a specifiche scene dal gusto troppo sofisticato, sintomo della vena sempre più hollywoodiana di spettacolarizzare all’eccesso ogni azione degli eroi.
Sarebbe però ingiusto sminuire la bellezza di questo film sulla base di determinate scene che, nonostante tutto, non stonano affatto nel complesso.
Sono i troppi e evidenti errori dei due precedenti capitoli ad aver reso meno gradevole il film, poco legato all’originale letterario. Ma, come detto, il terzo capitolo è riuscito a ridurre al minimo ulteriori eccessive libertà dei registi che, stavolta, hanno dato l’idea di voler ritornare sul sentiero tracciato da Tolkien. Si nota, perciò, maggiore consapevolezza dei limiti che pone la trasposizione di un’opera letteraria di questa portata, ma senza negarsi l’opportunità di arricchire la storia nelle parti che da Tolkien erano state delineate in modo meno preciso.

Arrivati al terzo e ultimo capitolo della seconda trilogia tolkeniana di Jackson, a questo #UltimoViaggio (hashtag usato su Twitter e sulla locandina del film) nostalgico nella Terra di Mezzo, possiamo anche arrischiarci nel dare un parere complessivo della trilogia.
Indubbiamente la qualità dei tre film dal punto di vista tecnico è di gran lunga superiore al suo predecessore, Il Signore degli Anelli, che però vince su Lo Hobbit per bellezza e forza emotiva.
A discapito di quest'ultimo ha giocato l'aspirazione letteraria più fanciullesca, fattore che ha costretto i registi a conferire un’aura epica a un lavoro che non possedeva da principio caratteri di stampo propriamente eroico e leggendario.
La qualità e la “serietà” del lavoro sono state rese tali solo con l’inclusione di particolari presenti soprattutto nell’Appendice A de Il Signore degli Anelli, scelta che ha reso possibile un collegamento e una spiegazione chiarificatrice sull’origine delle grandi guerre della Terza Era contro Sauron e successive alla scoperta dell’Anello da parte di Bilbo.

Tuttavia l’intreccio narrativo de Lo Hobbit è sembrato forzato in più punti, con storie che presentavano passaggi troppo artefatti (simili a operazioni di marketing per attirare più spettatori al botteghino) e alcuni richiami a Il Signore degli Anelli che sono risultati troppo invasivi.
In definitiva Peter Jackson, stavolta con l’aiuto di Guillermo del Toro, è riuscito di nuovo a produrre una trilogia di alta qualità ma, forse troppo sicuro e galvanizzato dal primo grande successo ottenuto con Il Signore degli Anelli, ha preferito intraprendere un percorso pericoloso, facendo la mossa un po’ azzardata di modificare anche radicalmente l’essenza dello stesso romanzo.
Sono sempre le produzioni dai caratteri più eclatanti a rimanere indelebili nella memoria della critica e degli spettatori, lasciando che il pubblico ne parli per tanto a lungo, e di certo Lo Hobbit – La Battaglia delle Cinque Armate, sarà oggetto di discussione ancora per molto.



A cura di Tonino Mangano.

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