martedì 30 settembre 2014

Focus on: Amélie Nothomb



Amélie Nothomb è una scrittrice belga che, nel corso della sua ventennale carriera, è riuscita a costruirsi un piccolo, ma solido seguito di ammiratori, in costante crescita. Tuttavia, per chi non la conoscesse, potrebbe essere difficile approcciarsi alla sua bibliografia, vuoi per la sua prolificità – almeno un libro all'anno – vuoi per gli stretti legami autobiografici che ogni sua opera possiede. Scegliere da dove iniziare può essere perciò poco immediato. Con questo articolo vorremmo fornirvi un' infarinatura del favoloso – e complesso – mondo di Amélie Nothomb.

La vita
Come già accennato, le esperienze di vita dell'autrice sono un argomento costante delle sue opere.
Nata in Belgio nel 1967, a causa del mestiere del padre, diplomatico, passa i primi anni della sua vita in Giappone. La separazione da questo paese, all'età di cinque anni, sarà un vero e proprio trauma. Dopodiché seguirà un periodo in Cina, a New York ed in Bangladesh, dove conosce la povertà e, soprattutto, l'anoressia.
Dopo essersi laureata in Europa, Amélie decide di tornare in Giappone, dove trova lavoro presso una multinazionale. A causa delle incompatibilità tra Oriente e Occidente, però, la situazione precipita: assunta come traduttrice, la nostra dopo pochi mesi si ritrova a doversi occupare dei bagni dell'azienda.
Nel 1991 la Nothomb si trasferisce definitivamente in Europa. Un anno dopo viene pubblicato il suo primo romanzo, Igiene dell'assassino.

I temi e lo stile
Ogni autore ha alcuni temi che gli sono più congeniali e che ritornano nel corso delle sue opere. Quelli di Amélie Nothomb sono la costante contrapposizione tra categorie che sembrano inconciliabili ma che, ad un'attenta analisi, hanno dei punti di contatto tra loro: la bellezza esteriore e l'avere un aspetto ripugnante (spesso attraverso la dicotomia magro-grasso, a lei cara per ragioni personali), l'amore e la crudeltà, la sanità mentale e la follia. Non mancano, inoltre, un gusto per l'autocitazione – in almeno un'occasione l'autrice appare persino come personaggio, salvo poi venire uccisa dagli altri protagonisti – e lunghe dissertazioni sull'etimologia delle parole, utili a fornire nuove angolazioni a quello che stiamo leggendo.
Nei suoi libri, brevissimi – all'incirca un centinaio di pagine per volume – lo stile è scattante e scorrevole, ma non per questo meno raffinato. Sono evidenti, infatti, gli sforzi della Nothomb per cercare la parola giusta per ogni situazione, anche a costo di utilizzarne una più desueta. Ciò nonostante la netta predominanza delle sequenze dialogiche e la struttura semplice della frase attenuano queste scelte, rendendo agile la lettura.

Le opere
Riassumendo vent'anni di carriera in poche righe potremmo dire che, in generale, le opere della Nothomb si dividono in due categorie: quelle autobiografiche e i romanzi. Per quanto riguarda la prima, queste si focalizzano principalmente sulla prima parte della sua vita, dalla primissima infanzia – Metafisica dei tubi – passando per Sabotaggio d'amore e Biografia della fame, fino alla seconda parentesi giapponese in Stupore e tremori e Né di Eva né di Adamo. Tutti possono essere letti indipendentemente dagli altri. Un ottimo punto di partenza potrebbe essere, però, Stupore e tremori, piuttosto rappresentativo della produzione e delle tematiche della Nothomb.


Più difficile generalizzare, invece, per gli altri romanzi. Fermo restando che, sfortunatamente, gli ultimi pubblicati non sono all'altezza dei predecessori, ognuno è diverso da quello che lo ha preceduto, quantomeno nelle premesse iniziali. Chi volesse approfondire il discorso, però, potrebbe iniziare da Antichrista – storia dell'amicizia tra due ragazze, anche se una delle due sembra avere un secondo fine – da Acido solforico (una rilettura in chiave moderna dell'Olocausto attraverso un reality show) o dal più sperimentale Mercurio, che a dispetto dell'apparente semplicità nasconde diversi spunti di riflessione, nonché la possibilità di scegliere tra due diversi finali.  Difficile, però, rimanere delusi da questa peculiare autrice.


Di Amélie Nohomb abbiamo recensito:





lunedì 29 settembre 2014

SERIE TV: UNA PIOGGIA DI NOVITÀ IN ARRIVO DA OLTRE OCEANO



Numerose e variegate per qualità e generi come i volumi che affollano gli scaffali delle librerie, le serie televisive costituiscono ormai una parte imprescindibile e sempre più rilevante all’interno dei palinsesti televisivi. E l’autunno e l’inverno sono il momento dei grandi ritorni, ma soprattutto del debutto dei nuovi prodotti, quelli che si spera diverranno i cult di domani.
Le grandi emittenti americane si preparano dunque a darsi battaglia, schierando in campo i loro pezzi da novanta.

Cominciamo dalla NBC, che punta sulla trasposizione di una delle serie a fumetti più note e amate della DC Comics, Constantine (in onda dal 24 ottobre).
Dopo il film di Francis Lawrence con Keanu Reeves del 2005, il famoso cacciatore di creature arcane è pronto a debuttare sul piccolo schermo, questa volta col volto dell’attore gallese Matt Ryan. Resta da vedere se il format sarà in grado di soddisfare gli esigenti estimatori del fumetto.
Ma il palinsesto e le novità della NBC non si fermano qui. Alle atmosfere dark e paranormali di Constantine, NBC affiancherà quelle decisamente più leggere della comedy One big happy (prodotta da Ellen DeGeneres) che, rifacendosi a serie di successo come Will & Grace e The New Normal, ruoterà intorno alla vita di una ragazza lesbica e del suo migliore amico – e convivente – etero e alla loro decisione di mettere al mondo un figlio insieme. Un ottimo modo per ridere, esplorando il tema delle famiglie “non convenzionali”.


All’insegna della varietà anche la programmazione dell’emittente Fox. Il ruolo di serie di punta spetta senz’altro a Gotham, come dimostra il battage pubblicitario che ha ampiamente preceduto la messa in onda del pilot il 22 settembre scorso (in Italia sarà i primi due episodi saranno manati in onda in chiaro da Italia Uno il 12 ottobre, per poi migrare sul canale pay Premium Action). Al centro della trama non troveremo però Bruce Wayne, alias Batman, ma un giovanissimo commissario Gordon, interpretato da Ben McKnezie (The OC). Un prequel che promette di far luce sul passato oscuro e travagliato di una città da sempre in lotta col crimine.
Anche Fox non rinuncia a puntare sulla commedia con The Last man on Earth, storia di un uomo che, come evince dal titolo, si ritrova a essere l’unico sopravvissuto dopo che un non ben precisato evento ha cancellato il resto del genere umano dal pianeta. Riuscirà a sopravvivere e magari a trovare un altro superstite – possibilmente donna – con cui dar seguito al genere umano? Un one man show che punta tutto sulla verve del suo protagonista, Will Forte, uno dei tanti mattatori del Saturday Night Live.

La ABC, invece, conscia del crescente successo di Once Upon a Time, gioca ancora una volta la carta del genere fiabesco, aggiungendo un tocco di commedia e musical. Galavant (2015), ripercorre la storia di un cavaliere fermamente deciso ad avere il suo “E vissero felici e contenti” con l’amata Madalena, una principessa rapita da un nemico temibile quanto “canterino”.
Sempre sui toni della commedia giocherà Selfie (il cui primo episodio è programmato per il 30 settembre), in cui la splendida protagonista, Eliza Dooley (Doctor Who), è una donna che decide di combattere la propria ossessione da social network assumendo un guru che rinnoverà la sua immagine, insegnandole a vivere nel mondo “reale”: un Pigmalione nell’era di internet.
Sul versante action e drama ABC lancerà poi altre due nuove serie: Agent Carter (gennaio 2015) , spin-off della già celeberrima Agents of S.H.I.E.L.D., che ruoterà intorno a Peggy Carter, personaggio già presente nel primo Capitan America, e The Whispers (in onda dal 2015), ispirata al racconto di Ray Bradbury Ora Zero, contenuto nella raccolta L’uomo Illustrato, che parla di un’invasione aliena, in cui i bambini costituiranno un mezzo per la conquista del nostro mondo.

A spazzare via lo stereotipo del nerd imbranato à la Sheldon Cooper, penseranno i geniali protagonisti di Scorpion – serie prodotta dalla CBS e in onda dal 27 settembre –, chiamati dal governo degli Stati Uniti a proteggere la sicurezza del Paese dalle complesse minacce del mondo moderno.
Dello stesso network, la serie investigativa Stalker (1 ottobre), creata da Kevin Williamson (Dawson’s Creek, Scream, The Following), in cui la squadra composta tra gli altri da Maggie Q (Nikita, Divergent) e Dylan McDermott (American Horror Story) indagherà su una serie di reati connessi, appunto, allo stalking.

Dalla CW prende vita l’ultima tra le grandi novità che animeranno il nostro autunno. Si ritorna ai supereroi con Flash (che debutta il 7 ottobre 2014), spin-off del più ben noto Arrow, che punta su spettacolari effetti speciali e sul carisma e la prestanza del protagonista, Grant Gustin (Glee).


Non ci resta, dunque, che piazzarci davanti agli schermi di computer e tv e scoprire quali di queste serie catturerà il nostro interesse, tenendoci compagnia durante i mesi freddi.


A cura di Tonino Mangano

venerdì 26 settembre 2014

Tempio degli Otaku #98: Sailor Moon Crystal, primi 5 episodi







Salve a tutti, e benvenuti ad una nuova puntata de "Il Tempio degli Otaku"! Vi avevamo raccontato, non troppo tempo fa, di una nuova-vecchia serie che ha debuttato in streaming lo scorso luglio: Sailor Moon Crystal. Non un remake dell'originale, bensì una serie creata apposta per l'occasione. Dall'articolo ad oggi sono usciti cinque episodi, con un sesto in arrivo il 4 ottobre. È perciò tempo di un aggiornamento. Buona lettura (e visione)!

Non vi tedierò con la trama, che definire "arcinota" è un eufemismo. A maggior ragione in questo caso, perché una delle prime cose che saltano all'occhio allo spettatore è proprio l'altissima fedeltà al manga. Non soltanto, infatti, la storyline viene seguita passo passo ma, quanto meno nel primo episodio, vengono riportate pedissequamente intere battute e scene. Anche chi seguisse i sottotitoli inglesi sul portale Nico Nico Douga, se facesse un confronto con la recente edizione italiana del manga, se ne accorgerebbe. Niente sfugge all'occhio - e alle penne - degli sceneggiatori, persino particolari di dubbia importanza come il nome e il soprannome della professoressa di inglese di Usagi - che appare per pochissimi minuti - o le battute di Umino/Ubaldo. Tanta cura, se da un lato è ammirevole, dall'altro appare un po' eccessiva.

Negli altri episodi gli sceneggiatori si prendono un po' più di licenze, soprattutto nei combattimenti, ma paradossalmente vengono mantenute scelte e battute infelici. Ad esempio: c'è davvero bisogno di ricordarci ad ogni singola puntata che Usagi, Ami e Rei sono rispettivamente Sailor Moon, Mercury e Mars? Oppure - una gemma dal terzo episodio - che Sailor Mars è protetta da Marte? Queste sviste potevano andare bene ai tempi della pubblicazione del manga, quando i singoli capitoli venivano pubblicati su rivista da soli prima di essere raccolti in volume, ma non a vent'anni di distanza. Difficile che chi guardi Sailor Moon Crystal non sappia chi è chi...

Detto questo, l'impostazione degli episodi ha due pregi non indifferenti. Il primo è la drastica riduzione dei filler, che avevano piagato le precedenti serie animate delle guerriere vestite da marinarette. Sopratutto, però, in questo modo viene favorita l'introspezione psicologica dei personaggi. Sono rese con molta cura la solitudine di Ami e Rei prima dell'incontro con Usagi: due ragazze con grandi potenzialità ma che vengono fraintese dagli altri, che le trovano fredde e scostanti. L'esuberanza di Usagi - a cui nessuna delle due è abituata - le porteranno ad avere più fiducia in loro stesse e ad abbracciare con ancora più convinzione la causa. L'amore tra la sopraccitata Usagi e Mamoru, inoltre, non appare giustificato soltanto dalle esigenze della trama: le sensazioni di Usagi sono realistiche, e ci portano a "tifare" per questa coppia. Ciò, ad esempio, non traspariva dal manga originale, la cui sceneggiatura correva troppo veloce per soffermarsi su questi particolari.

Anche per quanto riguarda il comparto tecnico, purtroppo, il giudizio non è del tutto positivo. Partendo dai suoi punti di forza spiccano le musiche, mai invadenti ma, al contrario, sempre puntuali, e la regia, che non interrompe l'azione con inutili virtuosismi. Di grande effetto anche gli eyecatch - le immagini che appaiono a metà di ogni puntata, spezzandola così in due parti - se non fosse che la stessa idea è stata usata in passato da un'altra serie, La Rivoluzione di Utena. Anch'essa sovvertiva gli schemi proponendo una protagonista che non attendeva l'intervento degli uomini ma che lottava per i propri ideali. Anche l'uso dei fiori, come nelle trasformazioni delle eroine, potrebbe derivare da lì.

Ho lasciato per ultimo l'aspetto prettamente grafico dell'opera. Non a caso. Questo perchè se da un lato esso è piuttosto piacevole - sopratutto nel contrasto tra il character design e gli sfondi delicati - da un lato presenta dei notevoli errori tecnici, che non ci aspetterebbe da una serie così blasonata. Ad esempio spesso le ragazze sono sproporzionate: si notino, in particolare, le trasformazioni, o anche la gattina Luna soffre. Un altro effetto del voler seguire troppo da vicino il manga, i cui disegni non brillavano per tecnica ed accuratezza. La visione non viene certo inficiata da questi difetti, se vogliamo di minima entità, tuttavia una maggiore cura sarebbe stata d'uopo.
Tirando le somme Sailor Moon Crystal riesce nel suo obiettivo di ovviare ai difetti dell'anime precedente e del manga, ma allo stesso tempo pecca di personalità, nel volerne seguire le orme senza mai deviare dal tracciato stabilito. Alcuni piccoli-grandi errori tecnici, inoltre, non fanno certo brillare il nome di Sailor Moon come meriterebbe. Ciò nonostante, per gli aficionados della guerriera, è una serie meritevole di essere vista... Ed anche - perché no - per i neofiti.

mercoledì 24 settembre 2014

Recensione: Chi ha ucciso la signora Skrof? di Mika Waltari



Chi ha ucciso la signora Skrof?, Mika Waltari
Iperborea
224 pagine, 14.00 euro
Opera dello scrittore finlandese Mika Waltari, Chi ha ucciso la signora Skrof? è stato pubblicato per la prima volta in lingua originale nel 1939, dunque nel periodo d’oro del giallo classico (1920-40), ed è il primo di tre romanzi che hanno per protagonista il commissario Palmu. La casa editrice Iperborea, specializzata in letteratura del Nord Europa, lo propone oggi al pubblico italiano nel suo inconfondibile formato lungo e stretto (10x20) che rende la lettura meno faticosa e più piacevole. Nel libro troverete anche un’interessantissima postfazione di Luca Scarlini, che in poche pagine approfondisce alcuni aspetti sull’opera di questo autore.

Il libro di Waltari è il classico giallo deduttivo, anche detto in inglese whodunit?, ovvero chi l'ha fatto?, chi è stato?, un genere letterario in cui il lettore segue i percorsi logico-deduttivi di un investigatore - quasi sempre affiancato da un assistente che spesso è anche la voce narrante e che racconta le indagini su un delitto avvenuto in circostanze misteriose. Come si evince dal titolo il delitto qui è ai danni di una donna la cui morte appare a prima vista accidentale: una fuga di gas durante la notte avrebbe messo fine alla vita della ricca e avara anziana e del suo cagnetto. La prima ad accorgersi dell’odore di gas nelle scale della palazzina dove risiede la Skrof è una vicina, la signorina Hallamaa, impiegata alle Poste, che si presenta nell’androne con le sue vecchie pantofole ciabattanti ai piedi e la bottiglia del latte vuota in mano. Il veloce scambio di battute con la portinaia è incredibilmente efficace nel catturare l’attenzione del lettore, in quanto riesce a trascinarlo dentro la storia in poche battute. Fin dalle prime pagine l’azione scorre veloce e senza intoppi. Sarà il postino a confermare la fuga di gas dall’appartamento della signora Skrof e l’agente Ara ad avvertire la centrale dell’incidente avvenuto. L’entrata in scena del commissario e del suo assistente avviene nel secondo capitolo, quando il tenente Hagert si presenta nel loro ufficio per dare la notizia della segnalazione di Ara. Palmu è intento a leggere il giornale mentre l’assistente batte freneticamente i tasti sulla tastiera per redigere l’ennesimo verbale di qualche noiosissimo interrogatorio. Un altro rapido scambio di battute e poche pennellate per descrivere la scena e i personaggi.

Leggere Waltari è un po’ come osservare un artista al lavoro davanti al suo cavalletto. Sulla tela ancora bianca vanno prendendo forma a poco a poco volti, figure umane, caratteri e personalità distinte. Basta un’espressione del volto, un tono di voce, un gesto a caratterizzare la psicologia di ogni suo personaggio, anche di quelli minori. I personaggi si rivelano anche e soprattutto attraverso i dialoghi. Eccellente è a mio avviso la drammatizzazione delle scene di interrogatorio. È un giallo dalla trama ben costruita con un buon rapporto tra dialoghi e descrizioni. La scrittura di Waltari è limpida, a tratti ironica e divertente, e accompagna il lettore pagina dopo pagina.

L’ambientazione è urbana: tutta la vicenda si svolge a Helsinki e ruota attorno alle persone più vicine alla defunta: i coinquilini residenti nello stesso edificio di proprietà dell’anziana, tra cui l’avvocato Lanne che curava gli interessi della ricca signora e la figliastra Kirsti con la quale conviveva; i parenti e gli amici più stretti tra cui il reverendo Mustapaa, individuo dal passato losco a capo di una comunità religiosa che l’anziana donna frequentava; il nipote Lankela e il suo amico pittore surrealista Kuurna. Tutti i personaggi sono ben tratteggiati e risultano molto credibili nei dialoghi.

Gli elementi della detective story ci sono dunque tutti: un delitto, la classica coppia investigatore-assistente e un numero circoscritto di sospetti dove ognuno sembra avere un alibi di ferro; il tutto è presentato in maniera molto chiara al lettore. A un commissario di polizia “della vecchia scuola” Waltari affianca un assistente fresco di laurea in legge e appassionato di criminologia fin da ragazzo. Difficile non simpatizzare con questo commissario un po’ burbero ma molto cauto nelle sue indagini, o con il suo giovane ed entusiasta collega, che a un certo punto della storia, quando le indagini sembrano destinate a perdersi in un vicolo cieco - almeno per lui, ma di certo non per il commissario Palmu che si considera invece a un passo dalla svolta o per dirla con le sue parole “all’inizio della fine” - ammetterà il proprio scacco e si vedrà costretto a interpellare direttamente lo stesso lettore per chiedergli di venirgli in soccorso, complimentandosi in anticipo con chi riuscirà a risolvere un caso che a lui sembra ormai troppo intricato. I lettori amanti del genere e più esperti sono invitati a fare le loro congetture. Un espediente narrativo molto efficace che richiede la collaborazione del lettore nella risoluzione del caso.


Per concludere, è un libro che entusiasma e coinvolge, lo stile è fluido, la storia scorre veloce e si legge piacevolmente, complice una voce narrante davvero intrigante. Bene, ora tocca a voi leggere il libro e scoprire chi ha ucciso la signora Skrof, come e perché. A fine lettura la vostra curiosità verrà ampiamente ripagata.


A cura di Paola Buoso

martedì 23 settembre 2014

Man Booker Prize 2014: annunciata la shortlist finalista



Joshua Ferris, Richard Flanagan, Karen Joy Fowler, Howard Jacobson, Neel Mukherjee e Ali Smith sono gli autori finalisti del Man Booker Prize 2014 per la narrativa. È stato AC Grayling ad annunciarlo, in una conferenza stampa tenuta nella sede di Man Group – una delle principali società d’investimento e sponsor del premio dal 2002 – nella quale si è elogiata la grande qualità dei testi presentati quest’anno.
Ali Smith e Howard Jacobson sono gli unici candidati ad esser stati presenti anche nelle precedenti edizioni: Smith è stata nominata in precedenza nel 2001 per Hotel World (Minimum Fax, 2004) e di nuovo nel 2005 per The Accidental (Voci fuori campo, Feltrinelli, 2005), senza però giungere alla vittoria. I 72 anni di Jacobson fanno sperare in una vittoria con l’ultimo romanzo, J – avendo già lo scrittore una nomination alla shortlist e una vittoria del 2010 con The Finkler Question. A questi autori seguono Neel Mukherjee e Richard Flanagan, che arrivano dai paesi del Commonwealth e, pur aspirando al titolo per la prima volta, sono recensiti molto positivamente dalla critica – Flanagan è valutato come uno dei migliori scrittori australiani degli ultimi tempi. Inoltre sono in gara due americani, Karen Joy Fowler, autore di un romanzo campione di incassi considerato una ventata di aria fresca rispetto ai testi generalmente presentati ai premi letterari, e Joshua Ferris, il più giovane dei candidati, la cui vittoria segnerebbe un ritorno in auge della letteratura comica. 
I finalisti riceveranno un premio di 2500 sterline e un'edizione speciale rilegata del loro libro. Il vincitore, invece, riceverà un assegno di 50.000 sterline durante la cerimonia di premiazione alla Guildhall di Londra il 14 ottobre. 



How to be both, Ali Smith (Hamish Hamilton)
How to be both è un romanzo sulla versatilità dell'arte. Prendendo in prestito la tecnica dell'affresco per scrivere un’opera letteraria a doppia presa, il romanzo è un rapido movimento di dialogo tra le forme, i tempi, le verità e le finzioni. C'è un artista rinascimentale del 1460. C'è il figlio di un bambino del 1960. Due storie di amore e di ingiustizia in un intreccio singolare dove il tempo diventa senza tempo, la struttura diventa gioco, la conoscenza diviene mistero, l’immaginario diventa reale – e tutto ciò che è stato ha una seconda possibilità per rivivere.









J, Howard Jacobson (Jonathan Cape)
Ambientato nel futuro - un mondo in cui il passato è pericoloso, tanto da non poter esser raccontato - J è una storia d'amore di stranezza incomparabile, allo stesso tempo tenera e terrificante.
Due persone si innamorano, non sapendo ancora da dove vengono e dove stanno andando. Kevern non sa perché suo padre ha sempre due dita sulle labbra quando nomina una parola che inizia per J. Non è mai riuscito a trovare il mondo di domandarglielo. Anche Ailinn è cresciuta all'oscuro di chi fosse o da dove venisse. Al loro primo appuntamento, Kevern le bacia i lividi sotto gli occhi. Non le chiede chi le abbia fatto male. La crudeltà è cresciuta. Non sanno se l’amore è stato una loro iniziativa, o se sono stati spinti l'uno nelle braccia dell’altro. Ma chi li avrebbe spinti, e perché?
Appesa sulle vite di tutti i personaggi di questo romanzo vi è una catastrofe epocale - un evento passato avvolto nel sospetto, negato e celato, denominato con l’espressione “Cosa è successo, se è successo”.




The Lives of Others, Neel Mukherjee (Chatto & Windus)
Calcutta, 1967. Supratik è ormai pericolosamente coinvolto nell’attivismo politico estremo, all’insaputa della sua famiglia. Costretto dal desiderio di cambiare la sua vita e il mondo che lo circonda, tutto ciò che lascia dietro di sé prima di sparire è questa nota: “Mamma, mi sento esausto e costretto in un laccio stretto, così gonfio da non riuscire più a respirare. Lascio tutto per trovare un po' d'aria, un posto dove sarò in grado di dimenticare me stesso, la vita che mi è stata imposta e crearmene una da solo. Mi sento di vivere in una casa presa in prestito. È tempo di trovare la mia. Perdonami”.
Il patriarca e la matriarca della sua famiglia, i Ghoshes, reggono una casata di grandi dimensioni, senza sapere che sotto la superficie appena increspata della loro vita le sabbie si stanno spostando. Più che la storia di rivalità tra cognate, segreti distruttivi, e l'implosione dell'azienda di famiglia, il romanzo è la metafora di una società disgregata e piena di fratture. Per questo è un momento di turbolenza, di cambiamento inevitabile e inarrestabile: l'abisso tra le generazioni e tra chi ha e chi non ha non è mai stato più ampio. Un romanzo che analizza tanti scenari, i limiti dell’empatia e la natura dell'azione politica, e si chiede se possa essere possibile ripensare il nostro mondo e a quale costo.



The Narrow Road to the Deep North, Richard Flanagan (Chatto & Windus)
La storia di Richard Flanagan – che ha come protagonista Dorrigo Evans, un medico australiano turbato dalla relazione con la moglie di suo zio – ci porta dalle grotte dei cacciatori della Tasmania nel primo Novecento ad un fatiscente hotel sulla spiaggia durante la Prima guerra mondiale, da una prigione nella giungla thailandese ad una festa della neve in Giappone, dalla forca Changi a un incontro casuale di amanti sul Sydney Harbour Bridge.
Prendendo il titolo dal diario di viaggio del XVII secolo del poeta haiku Basho, The Narrow Road To The Deep North racconta l'impossibilità dell'amore.





We Are All Completely Beside Ourselves, Karen Joy Fowler (Serpent’s Tail)
Questa è la famiglia Cooke. Il nostro narratore è Rosemary Cooke. Da bambina, non ha mai smesso di parlare; da giovane donna, si è avvolta nel silenzio: il silenzio di chi vuole dimenticare e cerca di proteggersi. Qualcosa è successo, qualcosa di così terribile da esser sepolto nei recessi della sua mente. Ora il suo adorato fratello maggiore è un latitante, ricercato dall'FBI per terrorismo interno. E sua madre, una volta vivace, è un guscio vuoto, il padre intelligente e imperioso ora lontano e meditabondo. Che ne è stato di Fern, amata sorella di Rosemary, sua complice in tutta la loro infanzia? Quello che è toccato a Fern è un destino di famiglia, quello che, in tutta la loro innocenza, non avrebbe mai potuto immaginare.




To Rise Again at a Decent Hour, Joshua Ferris (Viking)
Paul O'Rourke è un uomo contraddittorio: ama il mondo, ma non sa come viverlo. È un luddista fissato con il suo iPhone, un dentista dipendente dalla nicotina, un accanito tifoso dei Red Sox devastato dalle loro vittorie e un ateo non del tutto disposto ad abbandonare l’idea dell’esistenza Dio. Ma qualcuno ha deciso di impersonare Paul sul web, creando a suo nome un sito, una pagina Facebook e un account di Twitter. Quello che inizia come una violazione oltraggiosa della sua privacy diventa presto qualcosa di più spaventoso: la possibilità che il Paul virtuale sia una versione migliore di quello reale. Paul indaga sul motivo del furto d’identità ma, nel frattempo, è costretto a confrontarsi con il suo travagliato passato e l’incertezza nel futuro in una vita inquietantemente diviso tra il reale e il virtuale. Allo stesso tempo divertente, demistificatorio e riflessivo rispetto le assurdità del mondo moderno, il romanzo si pone le eterne domande sul senso della vita, l’amore e la verità, lasciando spazio alla commozione e alla sorpresa.



venerdì 19 settembre 2014

Recensione film: "Grandi Speranze" di David Lean

Il film Grandi Speranze del 1946 diretto da David Lean è considerato da molti critici una delle migliori trasposizioni cinematografiche di Charles Dickens che siano mai state girate. Il regista, poi anche autore di Oliver Twist (1948), non ha voluto apportare grosse modifiche alla storia principale e ha scelto le parti e le scene del romanzo più convincenti e commoventi, tralasciandone altre che sarebbero risultate forse di impatto emotivo minore: ecco perché il film può sembrare ad una prima analisi una versione ridotta del libro, anche se non manca nulla per una buona comprensione della trama. Grandi Speranze è comunque sostanzialmente una pellicola drammatica adatta a chi cerca la suspense, l'avventura, il brivido e le storie d'amore travagliate e sofferte, proprio come recita la locandina originale.
La fotografia è senza dubbio una delle parti meglio riuscite del film e si può quasi dire che le varie immagini e le scene presentate di volta in volta parlino da sole: lo spettatore si ritrova così come il lettore catapultato tra le paludi del Kent e si sposta poi nella caotica Londra del XIX secolo. Inizialmente l'ambientazione è gotica e di forte impatto, e il bianco e nero ne aumenta l'effetto, coadiuvato anche dalle musiche inquietanti ed evocative. Le scene in cui Pip corre nella nebbia per portare il pasticcio e la lima al forzato Magwitch sono convincenti ed esprimono con chiarezza quello che Dickens ci vuole trasmettere sin dai primi capitoli. In particolare in questo passaggio, così come nel romanzo, i luoghi e gli oggetti riflettono le emozioni e le inquietudini dei personaggi: le cortecce degli alberi sembrano quasi racchiudere volti umani e le pietre vivere di vita propria, esprimendo in questo modo un universo trasfigurato dalle paure e dai timori del protagonista. Anche se le immagini del film sono molto evocative e precise, non riescono comunque a sostituirsi del tutto alle splendide, espressive e a tratti ironiche descrizioni dell'autore.
Con l'arrivo di Pip a Londra notiamo invece alcune differenze tra la trasposizione cinematografica e il suo originale cartaceo: la capitale sembra da subito molto radiosa e vivace e troviamo pochi riferimenti alla situazione malsana e caotica in cui i cittadini vivevano. La città appare infatti poco caratterizzata negli esterni: la maggior parte delle scene è ambientata in interni, soprattutto appartamenti, uffici e case private. Mancano completamente i pensieri di Pip all'arrivo a Londra, secondo lui sopravvalutata, e anche le passeggiate nelle zone malfamate di Smithfield e Newgate, già descritte nella poesia A Description of a City Shower di Jonathan Swift. Lo spettatore vede la capitale tramite gli occhi di Pip: per questo l'ambiente in apparenza idilliaco cambia via via che le pene del protagonista crescono. Dopo la condanna e la morte di Magwitch, infatti, il ragazzo comincia a sentire su di sé tutto il caos della grande città. Qui Londra perde il fascino e le aspettative che aveva nei sogni di Pip e diventa in parte forse più realistica.
Per quanto riguarda i personaggi, vengono presentati quasi tutti quelli che ruotano intorno al protagonista, tranne Mr. Wopsle e purtroppo Mr. and Mrs. Pocket, forse tra le più divertenti caricature di tipi umani amaramente derisi da Charles Dickens. Il regista riconosce inoltre la sapiente ironia che lo scrittore incarna nel dipingere l'anziano padre di Mr. Wemmick e gli dedica un siparietto molto divertente. Il vecchietto quasi del tutto sordo risulta davvero simpatico, anche se nel romanzo gli vengono dedicate più pagine. E' bellissimo in particolare il rapporto che ha con il figlio e la premura con cui quest'ultimo lo tratta. Per quanto riguarda l'avvocato Jaggers, viene più o meno rispettata l'idea che ne dà il romanzo di uomo acuto e duro ma anche il suo vezzo più riconoscitivo, ovvero il lavarsi spesso le mani dopo ogni uscita per le vie di Londra, come a volersi pulire dal sudiciume reale e spirituale della prigione di Newgate.
David Lean apporta un cambiamento sostanziale al personaggio di Biddy: la ragazza non è più un'amica d'infanzia con un sincero affetto e anche qualcosa di più per Pip, ma una governante più grande che insegna tra l'altro a leggere e scrivere al ragazzo; in questo modo perdiamo i toccanti e profondi dialoghi tra i due amici ma riusciamo forse a comprendere meglio il matrimonio finale tra Biddy e Joe, ora più vicini anche come età.

Pip è interpretato molto fedelmente da un John Mills trentottenne, all'epoca accusato di essere troppo "vecchio" per interpretare un ragazzo di circa vent'anni: vengono in parte limitati i suoi problemi interiori, così come per Biddy e Joe che appare più tonto di quello che poi in realtà è, ma sempre a favore di una maggiore fluidità di trama.
Miss Havisham è forse resa in modo un po' troppo materiale: nel romanzo dà l'impressione di essere quasi incorporea, scheletrica e più simile ad un fantasma che aleggia sulla casa. Inoltre rispetto al libro l'entrata in scena di Miss Havisham perde in parte di pathos: la stanza sembra piccola e a tratti troppo illuminata. Già alla seconda visita di Pip a Satis House la situazione migliora: cambia l'inquadratura e vediamo ragnatele e abbandono ovunque.
Per quanto riguarda Estella invece il personaggio appare alquanto semplificato, forse più convincente da bambina che da adulta: durante i primi incontri con Pip, Estella ha infatti piglio deciso e occhi fermi e come nel libro è superba, distaccata e insolente. Tratta Pip malissimo e lo considera solo un ragazzino plebeo con le mani rozze.
Il finale è uno degli aspetti in cui il film e il libro sono più diversi. Nel film infatti Pip va da Estella, che ormai vive al buio di Satis House, non ha marito perché Drummle ha mandato all'aria il matrimonio dopo aver scoperto i foschi natali della ragazza e non sono passati anni come nel romanzo: i tempi del libro vengono infatti grosso modo rispettati tranne appunto la conclusione. Estella decide di vivere lontano dai problemi del mondo come un tempo aveva scelto Miss Havisham; la ragazza percepisce inoltre la presenza della madre adottiva sempre vicino a lei, quasi fosse davvero un fantasma. Pip allora decide di sfidarla, strappa via le tende e fa entrare finalmente la luce nella stanza. Estella ha paura ma il ragazzo le dice: "Ci apparteniamo e ricominceremo a vivere insieme". Questo la convince e conforta e i due se ne vanno via mano nella mano.
Il finale del libro invece non è così romantico. Pip ama Estella forse più per quello che lei rappresenta, come un sogno di bambino. Estella non ama Pip però i due possono diventare amici. Estella non ha paura dell'amore, come potrebbe trasparire dal finale del film, più che altro nessuna fiducia nel genere maschile così come le aveva insegnato Miss Havisham. Crede invece nel rapporto di amicizia con Pip tanto da temere di farlo soffrire. Estella si sposa fondamentalmente perché non riesce a liberarsi dal giogo di Miss Havisham, come da una sorta di vera e propria stregoneria, e forse perché è preda in parte di un atteggiamento di ribellione e autodistruzione.
Great Expectations può essere considerato ad un'ultima analisi come un romanzo sull'innocenza perduta. Né Pip né Estella, infatti, possono redimersi e tornare all'inizio: uno è stato corrotto dalle sue grandi speranze, l'altra dalla società che l'ha allevata nella persona di Miss Havisham. Pip desidera appartenere al mondo del denaro e del lusso e si allontana in questo modo dai puri di cuore come Joe, Biddy ed in parte anche l'amico Herbert, gli unici che saranno poi effettivamente felici.

Potremmo quasi dire che questa trasposizione cinematografica di Grandi Speranze sia una sorta di racconto corale politicamente corretto che parla meno di sporcizia, disonore e dolore rispetto al libro ma che ci regala il classico lieto fine senza particolari colpi di testa.


lunedì 8 settembre 2014

Recensione: Non c'è niente che fa male così di Amabile Giusti





Non c'è niente che fa male così, Amabile Giusti
La tartaruda edizioni
275 pagine, 17 euro
Per quanto sia difficile emergere come scrittori con piccole case editrici e self-publishing, Amabile Giusti non vi suonerà come un nome totalmente sconosciuto: nel suo piccolo, la scrittrice calabrese – professione: avvocato – ha una foltissima schiera di fan che hanno cominciato ad amarla soprattutto dopo la pubblicazione di Cuore nero, per la Dalai Editore, e non l'hanno abbandonata dopo le vicissitudini editoriali che hanno accompagnato la serie iniziata con Odyssea, attualmente fuori catalogo. La Giusti è anzi riuscita, grazie all'auto-pubblicazione, a raggiungere un bel traguardo: il nove settembre pubblicherà infatti per Mondadori il suo ultimo chick-lit, Trent'anni e li dimostro, a cui facciamo certamente tanti auguri.
In questa sede parleremo però del suo esordio letterario, il primissimo, venuto alla luce grazie a La tartaruga Edizioni.
Il titolo, Non c'è niente che fa male così, denota da subito la sfumatura di dolore di cui la narrazione è pregna. Uso un termine così forte perché il libro si fa portavoce di una storia penosa, a tratti agghiacciante, che la Giusti non risparmia di rendere in maniera efficace. Ne è protagonista Caterina, una diciassettenne atipica e disincantata che la vita, malgrado la giovane età, ha già messo a dura prova. Segnata a soli sei anni dalla scomparsa della sorella, vissuta in un contesto famigliare ostile – la madre – o indifferente – il padre –, Caterina ha sviluppato una corazza fatta di vestiti sempre troppo larghi o informi, che le nascondono il bel corpo e il seno prosperoso, e di cinismo. Parca di sorrisi, vive nella derisione dei suoi coetanei e a scuola non brilla pur essendo acuta e intelligente. In questo quadro, a migliorare o forse peggiorare la situazione interviene Marco, avvocato trentaseienne con cui intrattiene una relazione. Marco è sposato e ha una figlia nata “da un errore”, ma non è un buon marito né un buon padre – e nemmeno un buon avvocato, dato che la sua vera ispirazione è la pittura e la professione gli è caduta fortunosamente tra capo e collo grazie al matrimonio.
Complice la mia scarsa empatia con gli individui che stentano a prendere in mano le redini della propria vita, ipocriti fino al midollo, ho trovato Marco un personaggio odioso dall'inizio alla fine, incapace di dimostrare la maturità che ci si aspetterebbe da un uomo dalla sua età, e che forse compensa Caterina. Marco non si sforza di rendersi migliore o di rendere migliore la propria vita, tradisce la moglie ripetutamente senza alcun rispetto per lei, che d'altronde accetta questa situazione perché a sua volta inetta. Caterina appare per lo più una vittima, nonostante sembra che sia lei, soprattutto alla fine, a giostrare la situazione. Ma alle sue spalle, come alle spalle di ogni capitolo, c'è il fantasma di quella sorella morta, Loretta, che rivive nei flashback narrati dal punto di vista di Caterina, allora seienne. Amabile Giusti riesce a barcamenarsi bene nella gestione di questo POV, pur con qualche incertezza che comunque si riscontra in tutti i personaggi a lei troppo estranei. Il libro è infatti costruito su molteplici punti di vista, talvolta davvero sovrabbondanti, che rispecchiano quelli di ogni singolo personaggio presente nel libro – dalla madre di Caterina alla vicina di casa pettegola. Le incertezze a cui accennavo sono presenti ad esempio in Filo, diciassettenne eccentrico innamorato della nostra protagonista, che certe volte risulta un po' caricaturale nonostante la Giusti si sforzi di dargli un po' di spessore. Il cambio di registro tra un personaggio e l'altro è palese e diventa particolarmente poetico quando è la Caterina bambina a parlare, ma proprio qui la scrittura tentenna, in bilico tra la verosimiglianza e la forza comunicativa di cui la situazione necessita.
Lo stile della Giusti è quindi vario, poliedrico, ma sempre ancorato a un modus di fondo che si riflette in periodi lunghi e complessi, talvolta roboanti ma raramente artificiosi – sicuramente sarebbe stato necessario un lavoro migliore di editing in alcune parti.
La vicenda si legge con curiosità, complice anche la volontà di arrivare alla soluzione finale del destino della povera Loretta. Sono quasi assenti i punti morti, e anzi la storia incede malgrado la trama non presenti grossi sviluppi: l'autrice si concentra principalmente sull'introspezione psicologica, riuscendo, da questo punto di vista, a fare un lavoro magistrale. Pochi sono i personaggi che non hanno un margine di approfondimento e la Giusti riesce a dar vita a un corollario credibile, interessante, mai idealizzato e fortemente umano: ognuno, nel suo piccolo, è colpevole e contemporaneamente vittima. Ognuno è imperfetto, vile, incapace di rapportarsi con il mondo e con la vita.
Non c'è niente che fa male così rappresenta quindi un buon esordio, una prova credibile e che non mancherà di conquistare il cuore di molti lettori.


Voto: 



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