mercoledì 29 giugno 2016

L'editoria per ragazzi oggi. Intervista a Fiammetta Giorgi

A distanza di un anno dall'intervista a Beatrice Masini, torno a parlare di Young Adult con un'altra delle protagoniste di questo segmento, Fiammetta Giorgi, ex responsabile editoriale dei Libri Mondadori per Ragazzi e editor da un paio d'anni della narrativa Yong Adult di Giunti. Trovo interessante esplorare il punto di vista degli addetti ai lavori per fare un po' di luce su un settore sempre più imperante, ma che penso debba essere maggiormente responsabilizzato nei contenuti: Fiammetta Giorgi rappresenta un ottimo esempio dentro un sistema che spinge per la commercializzazione estrema (in senso negativo) e che poco bada all'età del pubblico se non in termini di trend e di vendibilità sul mercato. Abbiamo parlato dei criteri di selezione dei manoscritti da pubblicare, di libri già pubblicati, di lettori giovani e non: una piacevole full immersion che spero potrà esservi utile per analizzare tutti al meglio questo settore.

L'editoria per ragazzi vive da qualche anno un momento di forte espansione, e sembra essere, attualmente, l'unico settore a registrare segni positivi, sia per la produzione che per le vendite (fonte: Rapporto sullo stato dell'editoria in Italia 2015). Possiamo dire che gode, quindi, di ottima salute, o c'è qualcosa di perfettibile nell'industria per ragazzi italiana?

L’editoria per ragazzi dimostra grande vitalità non solo in Italia, ma in gran parte del mondo e ciò nonostante c’è ancora moltissimo da fare. Nel nostro paese, in particolare, per quanto si stiano registrando di recente segnali molto positivi, ci sarebbero enormi spazi di miglioramento. Rispetto ad altri paesi l’attenzione e le risorse dedicate alla promozione della lettura sono ancora molto scarse, sono rare le biblioteche scolastiche realmente funzionanti come pure gli spazi dedicati dai media alla letteratura contemporanea per ragazzi. È complicato perfino fare in modo che il corpo insegnanti possa agevolmente aggiornarsi sulle novità editoriali del settore, il che penalizza soprattutto alcuni libri di qualità meno immediati, che avrebbero bisogno di essere veicolati dal consiglio di chi li abbia letti e apprezzati.

Molti libri per bambini e ragazzi presentano tratti borderline, tanto da rendere obiettivamente difficile l'assegnazione di un target orientativo a beneficio delle librerie. In base a quali criteri viene stabilita la fascia d'età, specie nel confine tra ragazzi (11-13 anni) e Young Adult (14-18 anni)?

L’assegnazione di un target di lettura in base all’età è un criterio estremamente soggettivo, lo si indica in base a un insieme di fattori quali i temi trattati, l’età dei protagonisti, l’elaborazione stilistica del testo, ma all’unico scopo di agevolare la disposizione in libreria e la selezione da parte di chi prenderà in mano il libro. L’effettiva adeguatezza di un certo libro a un certo lettore dipende però da infiniti fattori: un lettore forte predilige spesso libri per un target di età superiore alla sua, ma lo stesso lettore a seconda dei momenti potrà preferire libri più impegnativi o più leggeri.

Ci sono libri che non vendono e che sono, però, necessari. Quando scatta la volontà di pubblicare, malgrado la consapevolezza che il ritorno economico sarà molto basso? Esiste davvero un conflitto tra il libro commerciale, di facile vendita, e il libro complesso, ma di qualità, che sarà difficilmente acquistato? E a Lei è mai capitato di dover sacrificare la qualità per un guadagno certo?

Il fascino dell’editoria è proprio nell’esistenza di infinite tipologie di libro che possono piacere a lettori diversi. Nessuno può mai avere la certezza assoluta di quale libro diverrà un bestseller ma senz’altro qualsiasi editor con una certa esperienza riesce a immaginare quale abbia maggiore possibilità di altri di catturare un pubblico più ampio e questo non sempre coincide con i proprio gusti personali, ma il nostro ruolo, che io onestamente trovo bello, è quello di individuare anche libri che piacciano ad altri. A volte mi è capitato di fare volentieri libri di più facile successo anche perché i ricavi economici che ne sarebbero derivati mi avrebbero permesso di pubblicare con maggiore tranquillità altri romanzi che amavo di più ma che avevano minori potenzialità commerciali. Un criterio che cerco sempre di seguire è quello di selezionare libri che mi farebbe piacere regalare a una persona cara: il che mi tiene lontana dai libri che mi appaiono brutti. Comunque finora ho avuto la fortuna di non dover mai rinunciare a priori ai libri che ho amato di più: nel mondo editoriale prima di pubblicare un libro bisogna affrontare una trattativa economica e non sempre si può vincere in caso di competizione con altri editori ma da questo punto di vista mi ritengo fortunata.

 Ho parlato l'anno scorso con Beatrice Masini della responsabilità che si assume l'editoria quando pubblica libri indirizzati a persone così giovani. Al giorno d'oggi, moltissimi Young Adult veicolano messaggi sbagliati, come quelli in cui le protagoniste vivono amori pericolosi con soggetti violenti e poco raccomandabili. Qual è la sua posizione a riguardo? L'editoria per ragazzi dovrebbe essere più attenta a queste problematiche?

La risposta a questa domanda discende in parte da quella appena precedente: usando come criterio quello di pubblicare libri che regalerei volentieri a persone care mi risulta difficile selezionare libri che trasmettano messaggi ambigui.

Moltissimi libri per ragazzi vengono letti da ultratrentenni, soprattutto quelli che non posseggono diversi livelli di lettura ma che sono stati, al contrario, specificatamente creati per un pubblico giovane e inesperto. Quale spiegazione ha dato, Lei, a questo fenomeno?

Anche per quanto riguarda i cosiddetti crossover, pensati per un pubblico ma capaci di conquistare anche altre fasce di età, il panorama è così variegato che è difficile dare una risposta univoca. Esistono alcuni romanzi molto commerciali e abbastanza superficiali che vengono acquistati anche da adulti per la loro capacità di intrattenimento, come facile svago, e ci sono romanzi di qualità che piacciono per la rapidità di trama o per l’efficace descrizione di protagonisti che vivono l’adolescenza, un’età piena di emozioni, possibilità di scelta, passioni di ogni genere, chiaroscuri che la rendono affascinante anche nel ricordo di lettori adulti.

In editoria è comune l'uso di incasellare il lettore dentro uno scomparto, al fine di tracciare un profilo-tipo che risponda alle aspettative di vendita. La realtà è, ovviamente, molto più complessa, specie quando si parla di un'età dinamica e iridescente come quella adolescenziale. A quale tipo di ragazzo pensa quando acquista un nuovo libro? E tiene conto anche della componente “adulta” che consuma YA?

Personalmente mi diverte cercare libri che piacciano a lettori diversi e nella collana di cui sono attualmente responsabile, la Waves di Giunti, amo mescolare sapori e generi diversi. Il primo ad aprirlo è stato Rebel. Il deserto in fiamme, un fantasy tra i più originali che mi siano capitati negli ultimi anni: uno stupefacente connubio tra Kill Bill di Quentin Tarantino e Le mille e una notte, con personaggi sexy, ironici, sopra le righe, e un’ambientazione in un deserto durissimo e affascinante popolato di creature magiche che ricordano la mitologia persiana o iraniana. Accanto a lui si sono però già schierati tra gli altri Hyperversum Next, un nuovo volume della saga di ambientazione medievale che ha reso celebre Cecilia Randall; Una presenza in quella casa di Paige McKenzie, un paranormal romance che si tinge di sfumature horror e gotiche; A Time for Dancing, un romanzo realistico molto intenso, ispirato a una storia vera e perfino Tutti i miei futuri sono con te di Marwan, un autentico fenomeno editoriale in Spagna: una poesia urbana del quotidiano, notturna, carnale, inquieta e ribelle, che ha avuto successo in quanto strumento di espressione giovane, rapidissimo eppure profondo, facilmente condivisibile in rete. Prediligo romanzi che offrano la possibilità di un’esperienza di lettura immersiva, che abbiano perciò trame capaci di catturare, ma anche personaggi credibili, a tutto tondo, caratteristiche che in genere permettono di attrarre sia ragazzi molto giovani che gli adulti.

È stata responsabile per nove anni della divisione ragazzi della Mondadori, credendo e insistendo molto su un prodotto come Shadowhunters. Si può dire che abbia toccato con mano la vitalità del fandom, lo stesso che adesso sta protestando a gran voce contro la traduzione errata dell'ultimo libro della saga, Signora della mezzanotte. Pro e contro di un seguito tanto fidelizzato?

La cosa che mi piace di più del pubblico dei romanzi per giovani adulti è la reattività. Appena un libro è pubblicato immediatamente arrivano commenti appassionati sulla trama, le copertine, le traduzioni... A volte possono essere anche negativi ma si ha sempre la sensazione di un rapporto molto vivo con i lettori. Le critiche più ardenti spesso segnalano il desiderio di entrare in contatto diretto con gli autori, quasi a dimostrare che quel romanzo che i lettori amano meritava di essere trattato meglio. Spesso nell’editoria si lavora con tempi troppo accelerati, in pochi a gestire una mole di lavoro ambiziosa e non fa mai piacere a nessuno lasciarsi scappare delle sviste ma il fatto che i lettori si facciano vivi fa comunque piacere: spesso l’editor è appassionato dei propri autori quanto i fan che li leggono.

Hunger Games, come Shadowhunters, è un altro libro che è stato pubblicato sotto la sua direzione, ma che ha impiegato anni a raggiungere il grande pubblico. Alla luce della Sua lunga esperienza, saprebbe dirmi quali sono gli elementi che decretano il successo di un libro?

Sono mille e spesso imprevedibili. Di Hunger Games mi sono innamorata nelle prime trenta pagine e quando un romanzo ti cattura così si intuisce subito che possa avere delle potenzialità, ma era diverso dai romanzi che avevano successo in Italia in quel momento e proprio questo all’inizio ne ha reso difficile la partenza. Ovviamente sono la trama, la forza dei personaggi e della scrittura a contare, ma a volte bastano una copertina, uno strillo per far decollare o meno un romanzo.


Si è da poco conclusa la Bologna Children's Book Fair, appuntamento fondamentale per l'acquisto e la cessione dei diritti con l'estero. Può anticiparci qualcosa sulle prossime uscite Giunti? Quali temi e che tipo di storie troveremo in libreria?

Proprio in questi giorni è uscito il romanzo di esordio di un autore inglese che amo molto: Cercando l’onda di Christopher Vick. È un romanzo di formazione di qualità, una bellissima storia d’amore sulle coste della Cornovaglia, con scene di mare meravigliose, visto che il gruppo di ragazzi protagonisti sono appassionati di surf. A ottobre pubblichiamo invece Capolinea per le stelle un romanzo steampunk di Philip Reeve, prestigioso autore inglese che sarà in Italia a fine ottobre, ospite di Lucca Comics & Games.




Un libro che è particolarmente fiera di aver pubblicato e un libro della concorrenza che avrebbe voluto pubblicare?

Fatico a scegliere di quale romanzo sono più fiera perché ne ho amati più di uno, però dovendo scegliere direi Sette minuti dopo la mezzanotte di Patrick Ness (ndr: a detto di molti, uno dei migliori libri per ragazzi uscito in Italia). Quanto ai libri della concorrenza, anche se all’epoca non ero ancora editor, avrei voluto pubblicare Harry Potter, e non solo per il suo straordinario successo: mi affascina molto vedere come nella letteratura di genere alcuni scrittori sono capaci di prendere gli spunti presenti nella tradizione e rielaborarli in modo da renderli completamente propri e dargli nuova vita.

martedì 28 giugno 2016

Invito al POP16, primo premio letterario del master in editoria della Fondazione Mondadori








Come ormai sapete, sto frequentando da alcuni mesi il master in editoria della Fondazione Mondadori. Tra le tante iniziative, quest'anno abbiamo lanciato niente meno che un premio letterario e, dopo aver valutato una rosa di sedici titoli, cinque sono selezionati per la finale. Si tratta de Il grande animale di Daniele di Fronzo (Nottetempo), La teologia del cinghiale di Gesuino Némus (Elliott), Appalermo! Appalermo! di Carlo Loforti (Baldini e Castoldi), Maria di Isili di Christian Mannu (Giunti) e Italia di Fabio Massimo Franceschelli (Del Vecchio). Ma chi sarà il vincitore?
Abbiamo organizzato una serata di proclamazione che si terrà domani alle 21 al Laboratorio Formentini, a Milano. Saranno presenti gli autori, noi masterini e alcune figure del mondo editoriale. L'ingresso è libero e siete tutti invitati: nel caso voleste venire, scrivetemi!

mercoledì 22 giugno 2016

Una Marina di Libri 2016: l'edizione dell'Orto è la migliore di sempre


Tra il 9 e il 12 Giugno si è tenuta a Palermo Una Marina di Libri, festival dell'editoria indipendente promosso dalle case editrici Navarra Editore e Sellerio e dal Centro Commerciale Naturale Piazza Marina & Dintorni. Giunta alla sua settima edizione, la manifestazione suscita un grande fermento nel panorama cittadino, grazie al suo carattere universale che coinvolge grandi e piccini alla scoperta della magia del libro. Quest'anno sono state tante le novità, a partire dalla location: per la prima volta, Una Marina di Libri è approdata all'Orto botanico, simbolo della bellezza del nostro territorio e della sua accoglienza - in esso sono ospitate piante provenienti da tutto il mondo -, vero e proprio museo a cielo aperto che si è trasformato in un perfetto scenario per le ottanta case editrici indipendenti presenti. Lontani dalla ben nota formula di disposizione circolare alla quale eravamo abituati dalle ultime edizioni allo Steri, alla Storia Patriae e alla GAM, gli stand dei vari editori hanno "invaso" la zona retrostante il Gymnasium e la navata centrale dell'orto, fino a circondare la famosa vasca delle ninfee.
Seminari, presentazioni, reading, mostre, spettacoli e dibattiti si sono susseguiti nelle varie sale e sfruttando i simboli dell'Orto all'esterno, come lo spazio vicino al ficus magnolioide. Tra gli eventi ai quali ho partecipato con molto interesse ci sono stati la presentazione di Caffè Amaro di Simonetta Agnello Hornby (Feltrinelli), scrittrice che apprezzo moltissimo e che non smette mai di ammaliarmi con la sua grande eloquenza, e l'intramontabile umorismo di Guido Catalano. Da standing ovation la performance di Roberto Soldatini, che ha intervallato il racconto di come è nato il libro Sinfonie Mediterranee (Nutrimenti) con dei brani di Bach suonati al violoncello e con una lettura musicata di Ventimila leghe sotto i mari di Jules Verne.

Ma parliamo dei libri esposti al festival. Tra quelli che hanno attirato la mia attenzione, menzione d'onore alla Tunué con le proposte di narrativa e graphic novel per grandi e piccini. Uno dei volumi più interessanti tra quelli esposti è il racconto illustrato della vita di Gabriel Garcia Marquez, ossia Gabo. Memorie di una vita magica di Pantoja, Bustos, Camargo, Córdoba e Naranj.

Altro stand che mi ha colpito è stato quello di Quodlibet, con proposte di narrativa e saggistica davvero particolari. Tra i libri che vi segnalo, un romanzo poco conosciuto di Fëdor Dostoevskij, Il villaggio di Stepànčikovo e i suoi abitanti, e una raccolta di racconti di Gianni Celati divisa nei volumi Costumi degli italiani 1. Un eroe moderno e Costumi degli italiani 2. Il benessere arriva in casa Pucci.


L'Orma Editore mi ha stupito con proposte raffinate, tra le quali spiccano Il gatto Murr di E.T.A Hoffman, nella splendida edizione rilegata che è entrata subito nella mia wishlist, e Storie Assassine di Bernard Quiriny, racconti dell'assurdo da tener sicuramente in libreria.

In ultimo vi segnalo L'uomo che aveva sete di Hubert Mingarelli che, insieme a Il mistero del mare di Bram Stoker, rappresentano due piccoli gioielli del catalogo Nutrimenti.

Non dimentichiamo le altre case editrici che hanno partecipato, tra le quali non posso non citare Minimum Fax, Iperborea, Navarra, Sellerio, Voland, Corrimano, Glifo, Gorilla, Il Palindromo, Kalos, Nottetempo e Qanat - devo ammettere che sono quelle che mi hanno tenuto incollata agli stand nel tempo che passava tra una presentazione e l'altra.

Vorrei sottolineare un pensiero che mi ha attraversato mentre mi trovavo ospite della Marina: per quanto ci sembri assurdo, la cultura resta uno dei fondamentali cardini che muove la nostra società, e ciò è stato ampiamente dimostrato dalla forte affluenza a tutte le ore del giorno da parte degli avventori. Con enorme piacere, ho visto che gli eventi che hanno destato interesse, oltre alla presenza di Francesco De Gregori e Roberto Lipari, sono stati i reading dedicati agli autori scomparsi, in ordine l'omaggio ad Umberto Eco di Gianfranco Marrone e Gigi Borruso, l'apprezzatissimo ritratto di Emilio Salgari di Michele Mari e la lettura di Virginia Woolf di Paolo Briguglia e Sara Scarafia.

Ben organizzata e, soprattutto, dedicata a tutte le età, è stata la migliore Marina di Libri di sempre. Un auspicio portato alla voce da tutti i visitatori è stato quello di conservare anche per l'anno prossimo la splendida location dell'Orto Botanico, simbolo di intreccio in germoglio tra cultura e natura che non smette mai di fiorire se trattato con le dovute cautele.


giovedì 16 giugno 2016

Video: Come avete scoperto il vostro libro preferito ~ Wattpad e i nuovi modi di leggere

Ciao a tutti! Nuovo video dove torno a parlare di YA e, in particolare, di Wattpad e dei nuovi modi di leggere.
E voi come avete scoperto il vostro libro preferito? Vediamo come stanno cambiando le cose di anno in anno ^-^



venerdì 10 giugno 2016

Piccola guida di scrittura per dilettanti




La scrittura è l'ignoto. Prima di scrivere non si sa niente di ciò che si sta per scrivere e in piena lucidità.
Writing, Marguerite Duras

In un paese dove nessuno legge, tutti vogliono scrivere. E se siete degli attenti lettori, o se producete voi stessi contenuti – romanzi, articoli o liste della spesa –, non vi sarà sfuggita la goffagine di questo incipit, che potrebbe persino degenerare. Si potrebbe aggiungere, ad esempio, la definizione di “goffagine” riportata sul dizionario: “L’essere, il mostrarsi goffo: g. di modi, di movimenti; non riesce a vincere la sua goffaggine”. E, per chiudere in bellezza, una disquisizione come “cosa è la goffagine, se non l'inclinazione a disvelare la verace natura di un umano turbamento?” potrebbe uccidere definitivamente la possibilità che esca qualcosa di buono dalle nostre nobili intenzioni.

Scrivere è un atto masochistico. Richiede freddezza, rigore logico, concentrazione, chiarezza, tempo, autocritica, costanza, umiltà e abilità linguistiche leggermente sopra la media. In definitiva, uno sforzo tale da non giustificare forse il supplizio. Scrivere è difficile e snervante, certe volte addirittura doloroso e, a meno che non siate Cortazar che scrisse Rayuela di getto, esige preparazione e studio. Non guasta qualche nozione di comunicazione, soprattutto in ambito “social” dove le competenze non dovrebbero essere inferiori a quelle dei blogger e degli aspiranti scrittori.
Chi non ha confidenza con il foglio bianco, con le parole che si inceppano e con un'insicurezza mai troppo prudente spesso si lancia nella scrittura con risultati indesiderabili. Di solito non è consapevole di essere un dilettante, malgrado lo stile sia rimasto immutato dai tempi del tema in classe – quello dove prendeva otto, proprio quello.

Per recuperare l'esempio iniziale, il dilettante comincia l'articolo con una citazione. Ispirato dall'ultima serie tv mainstream, dal verso di una canzone o da una frase di Oscar Wilde, lascia che le parole scorrano in libertà, portavoce di un sentire comune che rasenta la banalità. Infatti, primo strumento di cui dotarsi per iniziare a scrivere è il senso critico – che non dovrebbe mancare a un buon lettore. Secondo, più in generale, la volontà di trascendere il facile commento da bar o da social network, e questo non sembri un monito scontato: il tempo che il lettore sta sprecando nell'approcciare il vostro testo va ripagato. Se è probabile che quel che state scrivendo passi già per la testa della maggior parte della popolazione, fermatevi: non è un contributo necessario. Informatevi. Mettetevi in discussione. Cercate in profondità. Leggete un libro in più, un saggio in più, un articolo in più e, soprattutto, come accennato, non fatevi ambasciatori di concetti che ritenete universali (stereotipi di genere di cui andate fieri, ad esempio, a meno che non stiate facendo ironia) dimostrando così di non possedere il senso della realtà.
(Piccola parentesi: il ruolo delle lettura, se non sono stata abbastanza esplicita, è fondamentale. La qualità e la quantità dei libri letti influisce inevitabilmente sulla caratura della scrittura e, anche se la prima è senza dubbio più importante della seconda, il numero dovrebbe aggirarsi intorno ai trenta all'anno, ma meglio se dai cinquanta in su.)

L'urgenza della scrittura va quindi ridimensionata dalla capacità di guardarsi con occhi esterni e di accantonare in parte il proprio ego. Dall'assenza di argomenti dipende poi la tendenza del dilettante a rimestare più volte gli stessi contenuti, espressi negli stessi termini in articoli lunghi e pieni di luoghi comuni. Il pericolo è insito anche nelle formule utilizzate: il dilettante, appunto, cita il dizionario perché non saprebbe come cominciare altrimenti; utilizza le domande retoriche e le ripetizioni a effetto per rendere il tono della prosa enfatico, toccante, genuino – anche se l'artificio è sin troppo palese –, sfociando però in un patetismo ricercato che lui crede un pregio, ma che relega il testo al rango di Studio Aperto o, al peggio, di Massimo Gramellini. Ad accentuare questo effetto, il dilettante assume un registro quasi aulico e iperaggettivato con cui invoca giustizia, fratellanza e, perché no, la pace nel mondo, che in un altro contesto gli farebbe vincere lo scettro di Miss Universo. Il dilettante, poi, fa un uso personale della punteggiatura, spezza le frasi in modo da creare suspense, ama i puntini di sospensione.

È facile intuire come questo omologhi lo stile a quello di tanti altri, sebbene il dilettante pensi che il suo sia unico – anche se non si cura di rileggere, di cancellare le ripetizioni e gli errori di grammatica/battitura.
Al di là di queste imprecisioni, che possono essere risolte aprendo un manuale, l'intervento di un editor è necessario: per evitare le sbavature, per correggere la sintassi e per confutare passaggi che l'autore, seguendo il proprio filo, dà per scontati, ma che risultano non esserlo. Tanto più che la scrittura è un'attività liquida e stratificata su cui è possibile intervenire all'infinito anche dopo aver messo il punto, dato che è sempre perfettibile e, oltre ad aver bisogno di ritmo, richiede un largo ventaglio di sinonimi.
Uno stile prolisso, che tende a girare intorno ai concetti o a essere sovrabbondante, deve poi applicare strenuamente la prima regola dell'editing: tagliare tutto il tagliabile. A volte non serve molto per snellire un testo verboso e pretenzioso.
(Sì, anche questo post, come tutti quelli che scrivo, è soggetto a revisione – ciao, Ale.)

Se non disponete di un editor, il tempo dedicato alla scrittura va decuplicato e speso nella rilettura attenta, magari a distanza di qualche giorno dalla prima stesura. Prima di questo, avrete già impiegato ore per:
- Trovare l'idea;
- Fare ricerche, se necessario;
- Prendere appunti;
- Fissare gli spunti principali e sviluppare il concept;
- Stendere il post o l'articolo.
Di solito l'ultima fase è la più complessa, e non è detto che avere una certa dimistichezza con la scrittura aiuti ad accelerare il processo. Lo facilitano il rigore, senz'altro, una tecnica collaudata e l'assenza di distrazioni: è pleonastico dire che un'attività come questa ha bisogno di pace, quindi trovare un luogo adatto e solitario contribuisce molto alla riuscita del pezzo, così come l'isolamento da Facebook e Whatsapp.
A ogni modo, anche se non c'è una formula prestabilita, uscire dal limbo del dilettante non è un'utopia. Il rischio di conformarsi a uno stile o a un contenuto mediocre può essere evitato acquisendo i corretti strumenti critici: attraverso lo studio attento delle tipologie testuali che ci interessano e, soprattutto, grazie all' esercizio quotidiano e a una lettura costante e instancabile.

Nota personale:

- Scrivere per me è sempre stato difficile, uno sforzo che mi lascia prosciugata e insoddisfatta. Avendo poi scritto poco per il blog negli ultimi tempi, riprendere in mano la penna mi è costato qualche crisi (perché, come abbiamo detto, la scrittura è una creatura che va nutrita giorno per giorno, e quando smetti di praticarla ti dà l'impressione di aver disimparato. Tra l'altro, io vado molto spedita con le recensioni, ma niente affatto con gli articoli). Quando il caso mi sembra disperato, comunque, lascio stare il pc e inizio a scrivere a mano su un blocco note di fogli bianchi. Questo mi ricollega a una dimensione più intima e mi riporta a un tempo in cui non avevo tante pretese da me stessa. Di solito, riesco a scrivere meglio.

- Prima di andare a vivere da sola preferivo scrivere la notte, quando c'era silenzio e potevo raccogliere i pensieri – l'unico problema era il sonno che bussava alla porta, spesso nelle vesti di mia madre.
Adesso invece che posso farlo in qualunque momento mi rendo conto di quanto sia importante un ambiente privato per sviluppare le idee e dare loro una forma.

- Ho letto con sollievo che anche Annamaria Testa non scrive velocemente e che, tra l'altro, usa il mio stesso metodo: pensare a lungo alla frase. Scriverla. Leggerla. Riscriverla. Rileggerla. Moltiplicato per cento.
Grazie a questo sistema avanguardistico ho compilato la tesi al ritmo di una pagina al giorno. Ma, ehi, era una signora tesi.

giovedì 9 giugno 2016

Recensione: La via del male di Robert



La via del male, Robert Galbraith
Salani Editore
608 pagine, 18,60 euro
Cambiare genere narrativo non è semplice. Ci vogliono coraggio, inventiva, sensibilità e soprattutto doti eccellenti di scrittura. Queste qualità non mancano sicuramente a J. K. Rowling, che è stata in grado di passare dal romanzo per ragazzi al thriller senza perdere un centesimo del suo talento. Anzi, in un certo senso, le indagini di Cormoran Strike le hanno permesso di esprimersi ancora meglio e privarsi di tutte quelle sovrastrutture che la mostravano erroneamente al mondo solo come la "mamma" di Harry Potter. In questo terzo volume, La via del male, l’autrice fa un ulteriore passo avanti verso un’idea narrativa più concreta, regalandoci questa volta un thriller più tradizionale. Dopo Il richiamo del cuculo, primo tentativo in cui erano presenti tutti gli ingredienti ma doveva ancora in un certo senso aggiustarne le dosi, e un secondo romanzo, Il baco da seta, caratterizzato da un’idea di base originale ma con un finale abbastanza tirato e rocambolesco, J. K. Rowling ci regala una trama più elaborata e rischiosa, che coinvolge direttamente ed emotivamente i protagonisti e pesca nei rispettivi passati, forse la formula migliore di thriller tra i tre pubblicati finora.

Come in un classico alla Agatha Christie, vengono proposti alcuni tra gli indizi principali e presentati i possibili colpevoli, così da poter partecipare quasi attivamente alle indagini. La trama si dipana inizialmente in modo piuttosto lineare: Robin riceve un pacco anonimo contenente la gamba di una donna; Strike, fermamente convinto che il mittente sia una sua vecchia conoscenza, comincia le indagini e si ritrova a fare i conti con il proprio passato. La via del male è un thriller avventuroso e ben congegnato, che nel cercare il suo colpevole apre molte porte e sfiora ricordi tesi e dolorosi: l’autrice scava a fondo nei vissuti di Robin e Strike, che crescono entrambi in modo esponenziale. Il detective vede e legge il caso filtrato attraverso quelli che sono e sono stati i suoi traumi; lo conosciamo meglio proprio grazie alle indagini e ai sospettati, ognuno dei quali ha lasciato profonde cicatrici nel cuore del protagonista. Percorrendo questa sorta di inferno terreno e rivivendo le sue esperienze peggiori, Cormoran esorcizza parte dei suoi problemi e in un certo senso ritrova se stesso.
Il lettore vede a sua volta la narrazione con gli occhi di Strike, della sua assistente e anche dell’omicida: J. K. Rowling entra sorprendentemente bene nella mente del killer, è credibile e ci restituisce scene raggelanti, crude, realistiche e dotate di una certa efferatezza, in particolare i resoconti delle notti in cui l’assassino, quasi una sorta di Jack Lo Squartatore moderno, va a caccia, scova e in ultimo uccide le sue vittime. Lo leggiamo pedinare Robin, vediamo le sue azioni dall'esterno in modo estremamente inquietante, e aspettiamo con timore il momento in cui la sua furia calerà inesorabile sulla ragazza.

La resa dei personaggi è come sempre uno dei punti di forza dell'autrice: buoni e cattivi sono ben delineati e realistici, compreso il killer, i sospettati e addirittura la prima vittima, che conosciamo tramite i ricordi e ciò che ha lasciato. Robin e Strike sono la vera scoperta del romanzo: l’assistente si fa più seria e complessa e svela finalmente le sue ombre, mentre l’investigatore diventa meno “algido” e più umano; i due crescono e si avvicinano gradualmente, cominciando a costruire un rapporto complicato e affascinante, che è a tutti gli effetti uno dei protagonisti del volume.

Rispetto ai classici thriller che vediamo spesso in libreria, La via del male gode di un livello ulteriore di originalità: è ambientato infatti nel mondo dell’apotemnofilia, una sindrome che spinge il malato a desiderare di subire un’amputazione, soprattutto degli arti. Nelle forme più lievi l’obiettivo è solo quello di apparire disabile, mentre nei suoi sviluppi più gravi può portare al disturbo dell’identità dell'integrità corporea: in questo caso l’arto viene percepito addirittura come estraneo e il malato può arrivare anche a forme estreme di auto-amputazione. J. K. Rowling presenta questa zona d’ombra da vicino, in modo quasi morboso ma senza mai essere scontata; descrive il problema con precisione, proponendo al lettore anche il mondo dei forum online dedicati a questa patologia. Sappiamo che la Rowling ama i problemi psicologici, le stranezze del genere umano e le analizza con una libertà e una profondità notevoli. Questa volta però supera veramente se stessa e descrive questa malattia senza limiti o barriere etiche, alternando la psicologia clinica alla sensibilità: riesce quasi a partecipare di questi disturbi, a farli propri e a renderli al lettore in modo acuto e oggettivo, vagliando anche le motivazioni che possono spingere una persona a farsi letteralmente a pezzi. Questa tematica così estrema ed agghiacciante è secondo me il vero orrore che risiede ne La via del male: la condanna di queste pratiche è implicita e affidata alla figura stessa di Strike, unico vero mutilato del romanzo. L'autrice riesce inoltre a darci una comprensione ulteriore e privilegiata del personaggio di Robin che, da ex studentessa di psicologia, si fa carico delle indagini all’interno di questo particolare mondo e ci mostra le sue incredibili doti di profiler. È infine piuttosto facile tessere un collegamento di puro umorismo nero tra chi soffre di questa patologia, un killer che vorrebbe più corpi da profanare e Cormoran Strike, invalido di guerra che ha perso una gamba in un'azione militare e ancora ne soffre le conseguenze. Il romanzo percorre in definitiva i vari modi in cui il male si può esprimere nelle nostre vite: non mancano infatti tra le tematiche anche la pedofilia e la violenza sulle donne, argomenti scottanti e delicati che popolano quotidianamente i nostri giornali e i notiziari televisivi.

La via del male, in origine Career of Evil, deve il suo titolo ad un pezzo dei Blue Öyster Cult, gruppo rock nato sul finire degli anni ’60; il testo era opera di Patti Smith, all’epoca compagna del tastierista e chitarrista ritmico. I capitoli vengono introdotti da uno o più versi tratti dalle loro canzoni, mentre le pagine dedicate al killer sono precedute dal titolo di un loro brano. Questa scelta, oltre a sottolineare gli ottimi gusti dell’autrice, denota ancora una volta un grande lavoro di ricerca. I testi e di conseguenza le musiche di questa band ricreano inoltre l'atmosfera perfetta: inquietante, notturna e metallica come la lama di un coltello.
I dialoghi sono realistici e introspettivi, rivelano molto dei personaggi e non risultano mai noiosi. La narrazione procede seguendo più spunti e prospettive, mantenendo un ritmo incalzante e a tratti quasi da cardiopalma.

Lo stile è sempre quello che ha reso famosa J. K. Rowling: impeccabile, musicale ed estremamente espressivo, in grado di investire il lettore delle sensazioni dei protagonisti. L'autrice percorre con questi nuovi romanzi la società e le nostre debolezze, analizzandole a fondo: le nefandezze che caratterizzano il genere umano si fanno di volume in volume più turpi e inaccettabili, fino a raggiungere ne La via del male un elevato grado di orrore. Potremmo quasi dire che J. K. Rowling abbia scelto il thriller come nuovo corso creativo perché l'essenza della civiltà umana è alla fine caratterizzata da una forte dose di violenza e circondata da muri di crudeltà ed egoismo.

Uniche pecche del romanzo sono ancora una volta da imputare al finale: sicuramente meglio congegnato rispetto alle due indagini precedenti, rimane comunque leggermente brusco e tirato, soprattutto per quanto riguarda la scoperta del colpevole che era, secondo me, da un certo punto in poi, facilmente individuabile. La tensione, creata anche dal continuo alternarsi dei capitoli dedicati al killer, cala di colpo dopo l'attentato a Robin. A quel punto la ricerca dell'identità dell'assassino passa in un certo senso in secondo piano rispetto alla risoluzione dei problemi tra i due protagonisti. Il rapporto tra Strike e la sua assistente si fa sempre più teso, fino a sfociare in un furbissimo epilogo, aperto, maturo e imprevedibile, che non mancherà di disturbare o deliziare i fan e lasciare tutti col fiato sospeso: in questo J. K. Rowling si supera e si dimostra ancora una volta bravissima nell'aprire la narrazione e soprattutto le dinamiche affettive tra i personaggi. Tocchiamo così da vicino quello che è uno dei grandi quesiti dell'intera vicenda: il detective e la sua assistente diventeranno una coppia? In che modo verrà realizzata quest’unione? Mettendo i due faccia a faccia con i loro traumi e incubi più oscuri, l’autrice è riuscita a mostrare quanto Robin e Strike siano in realtà simili, ognuno in fuga da un passato troppo gravoso da sopportare.

Nonostante la tensione raggiunga il suo apice forse troppo presto, la lettura comunque procede a rotta di collo e non subisce brusche fermate. La via del male è un romanzo magnetico da cui è difficile staccarsi, sia per lo stile, sia per l'espressività di personaggi, che per la varietà delle tematiche. Interessante è inoltre la scelta dei sospettati che va ad aprire finalmente il vissuto di Strike, improvvisamente più umano e vicino al lettore. Scopriamo infatti molto del suo passato. Potremmo dire che questa indagine sia quasi un mezzo per avvicinarci ulteriormente a lui e rendercelo, se possible, ancora più “appetibile”. E che dire, funziona perfettamente.

Voto: 



lunedì 6 giugno 2016

L’odissea dell'integrazione: esempi letterari di esclusione sociale

A cura di Tonino Mangano

Alla luce degli ultimi eventi di cronaca che riguardano il panorama internazionale, ma che hanno ripercussioni anche e soprattutto nelle politiche interne degli Stati europei, possiamo affermare con certezza che uno dei temi principali con cui si apre il primo ventennio del XXI secolo, già dall’infausto 2001, è quello delle migrazioni di popolazioni.
Spinte da condizioni di povertà o dalla guerra, migliaia di persone si ammassano sulle frontiere degli Stati più ricchi per cercare di riprendere in mano le fila di vite distrutte. Il viaggio di vere e proprie nazioni in fuga, che perdono la sicurezza del territorio (elemento identitario di un popolo), termina con l' arresto improvviso sui confini nazionali di chi opera scelte, giustificate o meno, pur di salvaguardarsi da quella che molti definiscono “invasione”. Il risultato degli ostacoli che vengono posti alla libera circolazione di queste masse di migranti produce un fenomeno di ghettizzazione.

Le situazioni che si vengono a creare (solo per certi versi dinamiche senza precedenti) non sono prodotti originali del nostro secolo, ma affondano le loro radici in tradizioni purtroppo ben consolidate nella storia europea.
Il fenomeno della ghettizzazione di masse umane è una costante nelle persecuzioni operate dai governi contro le minoranze ritenute scomode.
Uno degli esempi più conosciuti è sicuramente l’annosa questione ebraica. A parte gli ovvi riferimenti alla storia contemporanea della persecuzione antisemita hitleriana, il popolo israelita è stato da sempre vittima della pratica della ghettizzazione. Caso noto, risalente al Basso Medioevo, è la persecuzione a seguito della Grande Peste, dilagata in Europa nel 1348, con il suo primo focolaio sulle rive del Mar Nero. Agli ebrei venne imputato il crimine di diffondere la peste, come precursori dei manzoniani untori. Altra data ben conosciuta è il 1492, che segnò l’espulsione e la persecuzione degli ebrei in Spagna, con decreto regio dei sovrani di Castiglia e Aragona, Isabella e Fernando. Un esempio spagnolo che è stato già riportato nel testo riguardante il racconto picaresco è il Lazarillo de Tormes (1543) in cui si annoverano gli ebrei come parte della popolazione oppressa e discriminata. Anche nell’Età d’Oro inglese, però, sembrano verificarsi esempi di ghettizzazione che viene sostenuta non solo dalle istituzioni, ma soprattutto dalle classi popolari. L’emigrazione ebraica in Inghilterra prese vita nel corso di molti secoli, dal 1066 (Alto Medioevo, periodo di Crociate in Medio Oriente) fino al 1655. Fin dal 1066, gli ebrei furono vittime di soprusi e discriminazioni da parte degli anglosassoni. A suffragio di ciò, si può ricordare che nel 1217 vennero costretti a indossare dei distintivi gialli per essere riconosciuti dal resto della “popolazione civile”
Inoltre, non appena i banchieri italiani assunsero una maggiore influenza finanziaria nell’economia inglese, i banchieri ebrei si videro sottrarre sempre più larghe fette di mercato, a tal punto che molti furono costretti a dichiarare bancarotta, a essere ghettizzati ed espulsi dalla Gran Bretagna. Sarà solo nel 1655 che gli ebrei verranno riammessi in Inghilterra, con un decreto emesso da Oliver Cromwell. Un esempio letterario di come anche gli autori inglesi non fossero immuni dall’antisemitismo dirompente nella società inglese del XVI secolo si palesa con Christopher Marlowe e il suo L’ebreo di Malta (1589), una farsa mordace che colpisce lo stereotipo dell’ebreo cupido di ricchezze.

Informazioni preziose sul sentimento comune provato dagli inglesi nei confronti degli ebrei nella seconda metà del Cinquecento ci derivano dal Bardo di Avon, l’immortale Shakespeare. In uno dei suoi lavori teatrali, Il Mercante di Venezia (1596), il Bardo mette in scena quanti più stereotipi sociali dell’epoca, mostrando Shylock (il mercante di Venezia, per l’appunto) come un perfido calcolatore egocentrico, che preferisce sacrificare persino la felicità della figlia pur di perseguire il proprio profitto. Ma la critica letteraria rimane sempre molto dubbiosa sulle caratteristiche psicologiche da attribuire al personaggio del banchiere ebreo. Indubbiamente Shylock dimostra la sua natura perfida, ma il comportamento, a parere di molti, può configurarsi come risposta quanto mai legittima alla discriminazione di cui viene fatto vittima dalla controparte cristiana. Antonio, uno dei protagonisti della pièce, è infatti uno di quei cristiani che non hanno timore di affermare apertamente l'odio verso gli ebrei in quanto ebrei, senza altri motivi che giustifichino l’astio nei loro confronti. Anche in questo caso, Shakespeare si dimostra geniale come lo ricorda la letteratura: tramite battute  pronunciate da coloro che riempiono i propri gesti e parole di grazia, amore e carità, il Bardo osserva come non sempre queste virtù vengano dimostrate e applicate appieno dai cristiani nel momento in cui devono interfacciarsi con individui di diversa cultura e religione.

La storia meno nota della ghettizzazione e delle discriminazioni antisemite si snoda nel corso del tempo e in aree forse poco conosciute e analizzate nelle nostre scuole. 
Nell’arcipelago di etnie che dà vita all’Europa Orientale, soprattutto le politiche sovietiche avevano istituito i famosi pogrom. I programmi di integrazione sostenuti dall’Impero Ottomano si limitavano a costituire dei millet, delle sacche etniche in cui ogni popolazione godeva di determinati diritti e di una certa autonomia, sempre sotto l’egida delle autorità ottomane. È in riferimento alle zone più periferiche che i risultati di integrazione e relazione tra le diverse etnie si fanno più difficili da analizzare. 
A soccorrere la ricostruzione storica qui presentata, contribuiscono in modo provvidenziale autori come il Nobel Isaac B. Singer o anche il contemporaneo Jonathan Safran Foer. Una delle opere più conosciute di Singer è sicuramente Gimpel l’Idiota, una raccolta di racconti ambientati in Polonia e sul confine sudorientale della stessa, o anche in America, dove famiglie ebree emigrarono dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. In questa serie di racconti si mischiano in modo sapiente elementi fiabeschi che affondano le radici nella letteratura sacra talmudica o nelle superstizioni popolari dei gruppi yiddish. Dal punto di vista letterario, è molto interessante notare come ricorrano dei personaggi stereotipati della cultura umoristica yiddish: lo schlemiel (il corrispettivo dell’italiano “scemo del villaggio”), lo shnorrer (mendicante), il luftmensch (il sognatore), lo schadchen (il sensale che organizza i matrimoni e che molto spesso è il risolutore delle controversie o è la causa scatenante dei problemi dei protagonisti). 
Per quanto queste nozioni siano utili per riscoprire e studiare lo sviluppo della letteratura umoristica nelle varie culture – anche in quelle che vengono troppo genericamente giudicate austere per antonomasia –, l’opera di Singer, in alcuni passi, ci permette di scavare a fondo non soltanto nella sensibilità e nell’umanità delle popolazioni ebraiche emigrate in Europa (in questo caso gli ashkenaziti), ma dispensa delle prove storiche inconfutabili. Le informazioni di prima mano che riceviamo dal testimone diretto, quale è l’autore che ha vissuto in Polonia durante la sua giovinezza e per parte della maturità, ci regalano esempi di discriminazione a cui furono soggetti gli ebrei dell’Europa dell’Est. I pogrom non costituirono solo un elemento di disordine sociale e intolleranza, ma causarono anche una rottura che portò alla suddivisione di intere città in zone adibite ai civili e ghetti abitati dagli ebrei. 

Da qui nacque la forma di aggregazione ashkenazita dello shtetl (trad. dallo yiddish: villaggio), in cui si svolgevano le attività quotidiane, ma anche tutte le funzioni di amministrazione della comunità ebraica da parte dei rabbini. Il centro di questi villaggi diveniva la sinagoga, fulcro della vita religiosa e politica delle comunità. A dare una visione poetica, struggente e altrettanto chiara della vita che si conduceva negli shtetl e nei ghetti, contribuisce il primo romanzo di Jonathan Safran Foer, noto al vasto pubblico per la sua trasposizione cinematografica omonima: Ogni cosa è illuminata. In questo libro procedono parallelamente la storia del viaggio dell’autore e delle sue due guide in Ucraina e la saga familiare che Jonathan ricostruisce, ambientata nel villaggio di Trachimbrod, sul confine ucraino-polacco, raso al suolo dalle truppe naziste.
È nel corso delle due narrazioni che emerge il tema della memoria mistificata con accenni di antisemitismo delle culture slave. Per quanto riguarda la ricostruzione storica e romanzata degli antenati di Foer, elemento di rilievo è la cultura quasi cameratesca degli ebrei, che si stringono in una organizzazione sociale basata sul mutuo soccorso e su un margine piuttosto labile di autogoverno, sebbene i dissapori non manchino all’interno della stessa comunità. 
La divisione di Trachimbrod in zona ucraina e zona ebraica è un esempio di come gli ebrei venissero mal visti dai loro concittadini ucraini. Sarà lo stesso Safran-protagonista a sottolineare come molti ebrei non sopportassero quell’atmosfera di tensione e oppressione tanto che, all’arrivo dei nazisti, molti pensavano che le loro condizioni di vita fossero addirittura migliorate rispetto ai tempi precedenti. La storia però diede prove ben diverse della tolleranza importata dai tedeschi. Alcune battute del co-protagonista di Ogni cosa è illuminata, il traduttore ucraino Alexander Pechov, lasciano intendere come anche agli inizi degli anni Novanta si avvertiva ancora una certa ritrosia nei rapporti con gli ebrei e i loro discendenti emigrati in America, poi ritornati in Ucraina per visitare i luoghi legati al contesto della Shoah. Una certa inconsapevolezza storica potrebbe anche rivelarsi dalla citazione seguente, vergata dallo stesso Alex Pechov: 

Il Babbo lavora per un’agenzia dei viaggi che si chiama Viaggi Tradizione. È fatta per gli ebrei come l’eroe, che ambiscono a venire via da quel nobile territorio, l’America, e visitare umili cittadine in Polonia e Ucraina. L’agenzia del Babbo ha traduttore, guida e autista per ebrei che cercano di disseppellire i posti dove esistevano le loro famiglie. Okay, io prima del viaggio mai avevo conosciuto personaggi ebrei. Ma questa era colpa loro, non colpa mia, perché lo avrei sempre voluto: che anzi potrei quasi dire che mi sconfinferavo di conoscere uno di loro. Sarò ancora verace e dirà che prima del viaggio avevo idea che gli ebrei hanno il cervello ripieno di merda. Questo perché tutto quello che sapevo degli ebrei era che pagavano al Babbo tantissimi soldi per venire in vacanza dall’America in Ucraina. Ma dopo ho conosciuto Jonathan Safran Foer e, io vi dico, non è ripieno di merda. Lui è un ebreo geniale.*

Non sono solo le minoranze ebraiche europee a essere state vittime di discriminazione e ghettizzazione, ma un esempio altrettanto eloquente ci viene tramandato da uno dei padri del romanticismo francese, Victor Hugo, con la sua opera giovanile Notre-Dame de Paris. Ambientato nella Parigi del 1482, il romanzo descrive la celeberrima storia che ruota intorno al campanaro gobbo Quasimodo, al suo tutore Frollo, al Capitano Phoebus e alla gitana Esmeralda. È proprio per quanto concerne i gitani che si può parlare di ghettizzazione. Situata sulla riva destra della Senna, a poca distanza dal corso del fiume, si trovava la Cour des Miracles, la Corte dei Miracoli in italiano, un luogo in cui si radunavano viandanti, emarginati, indigenti e malfattori. Il fenomeno prendeva vita nelle maggiori città francesi, anche durante il XVIII secolo. È in questi luoghi che si radunavano le classi meno abbienti e più pericolose della società, dove venivano osservati dalle autorità che cercavano di arginare possibili espansioni dei quartieri sottoposti alle leggi delle Corti. La gitana sarà data in pasto agli scandali sollevati dall’arcidiacono Frollo, invidioso della bellezza di Phoebus e della fortuna da lui avuta nel far innamorare di sé la bella danzatrice; Esmeralda sarà altresì vittima dell’indifferenza di Phoebus, spaventato dalla possibilità di perdere di credibilità e di macchiare la sua fama a causa dello scandalo. 
Questi espedienti narrativi fanno provare pietà per la sfortunata e ingenua gitana, che sarà presto fatta oggetto di scherno e maldicenze da parte della popolazione parigina, mossa da un odio dettato dagli stereotipi e dalle voci che circolano intorno alle personalità che abitano la Corte dei Miracoli.

Si possono presentare anche eccezioni nel processo di esclusione e ghettizzazione. L’autore Nathaniel Hawthorne ce ne presenta uno dei più noti ed eloquenti: Hester Prynne, protagonista del romanzo La lettera scarlatta. Nelle opere di Hawthorne troviamo la critica ai costumi quaccheri, alla loro vita austera, alla dedizione alla continua purificazione dello spirito, alle persecuzioni contro gli eretici e alle dure punizioni per estorcere pentimenti e condonare la relativa redenzione ai peccatori. Nei racconti si avverte una punta di sarcasmo quando Hawthorne descrive i comportamenti e i casti pensieri dei puritani americani e questo stesso stile viene ripreso nell’opera menzionata. La trama ruota intorno alla figura di Hester, abitante di una cittadina della Nuova Inghilterra e condannata a indossare il simbolo del peccato di adulterio, la bruciante e vermiglia lettera A, cucita sugli abiti. Hester sceglierà volontariamente una sorta di esilio che non la porterà molto lontano dalla cittadina in cui si svolgono i fatti, ma cercherà sempre di mantenere il più possibile le distanze dai suoi concittadini. Con il passare del tempo, la placidità con cui Hester condurrà la sua vita e accudirà sua figlia Pearl faranno scemare il disprezzo che le elargiscono i quaccheri. Questi ultimi non hanno direttamente influito sull’autoesclusione di Hester, non hanno usato alcuna coercizione per allontanarla fisicamente dal circondario della città. Sono stati i loro gesti, in modo indiretto, a convincere Hester della convenienza della via della separazione e di una ghettizzazione che non assume caratteri disumanizzanti, ma che anzi concorre a esaltare e beatificare la composta tristezza e rassegnazione con cui la protagonista conduce la sua esistenza. L’allontanamento di Hester equivale, in questo caso almeno, a una catarsi, è sinonimo di una grandezza d’animo a cui i quaccheri stessi non potranno mai aspirare nonostante tutti i loro sforzi per apparire degni e puri d’animo al cospetto di Dio. La ghettizzazione non è più una pena, ma appare come un nuovo orizzonte di possibilità di ricominciare e di spezzare con il passato, dismettendo ogni legame con una cultura troppo oppressiva e con regole sociali troppo strette per uno spirito libero come lo era Hester.
americano

Proseguendo nell’elenco di eccezioni, non è detto che nel mosaico di esperienze di profughi e abitanti dei ghetti si riscontri sempre un desiderio di revanche nei confronti degli elementi che fomentano l’esclusione. Contrariamente a quanto pensa una vasta porzione della popolazione e una parte di esponenti politici italiani ed europei, coloro che compongono la categoria degli esclusi non manifestano istinti aggressivi a priori. Servizi giornalistici e reporter freelance hanno dimostrato come, da parte degli esclusi, si riscontri un desiderio di integrazione pacifica alle comunità ospitanti.
Dal punto di vista letterario, un esempio palese viene proposto dalla cultura fumettistica Marvel, con la saga degli X-Men. In quest’opera vengono messe a confronto due visioni diverse. Magneto è l’emblema di un escluso che si sente minacciato da chiunque non gli assomigli e, a sua volta, anche in lui si avverte il timore di essere distrutto dal diverso, concezione che lo porta a non differire dai suoi oppressori, in termini etici. L’altra faccia della medaglia degli esclusi è il Professor Xavier, consapevole di dover portare avanti una difficile campagna ideologica a favore della pacifica integrazione nella società di coloro che non riportano mutazioni genetiche. La paura di Magneto e il suo passato difficile conducono in una direzione sola: lo scontro di civiltà, la xenofobia, l’odio, il desiderio di rivincita. La visione più pacata e diplomatica di Xavier appare come l’alternativa a un inutile massacro. È la diatriba tra queste due visioni diametralmente opposte che dà vita a uno scontro intestino alla stessa popolazione mutante. La situazione interna alla compagine degli esclusi sembra essere il dato evidente di come il mondo non sia sempre diviso perfettamente in due metà, ma come ogni vero spirito critico debba tenere conto delle sfumature, fondamentali per decifrare la realtà in cui viviamo.

Gli esempi storici e letterari riportati, così come le eccezioni e la visione degli esclusi, sembranoZerocalcare). Come si evince dalla citazione, l’esempio più lampante viene dato dall’autore romano Michele Rech, in arte Zerocalcare. Nel suo ultimo lavoro, Kobane Calling, l'autore offre uno spaccato di vita quotidiana in due dei tre distretti in cui è divisa la resistenza curda sulla zona di confine tra Turchia, Siria e Iraq. Zerocalcare riporta ciò che ha vissuto nei suoi due viaggi in Medioriente: la prima volta (novembre 2014) è giunto a Kobane, che faceva parte di una piccola area circondata dalle zone di influenza dell’ISIS, al confine con la Turchia; nel secondo viaggio (luglio 2015), invece, si è spinto fino a Qamishlo, nel cantone di Cizre e, grazie alla resistenza e alla riconquista di territori ISIS, gli è stato possibile spingersi nuovamente fino a Kobane, lungo un corridoio di terra ancora in via di bonifica da parte delle forze curde. Quello che viene descritto da Zerocalcare è un esperimento di vita democratica, frutto di ghettizzazione dell’etnia curda da parte dei governi di Iraq, Siria e Turchia – a cui si aggiunge la persecuzione da parte dei membri dell’ISIS – con la volontà dei curdi di creare delle aree protette e libere da ogni oppressione. Nel nostro quotidiano veniamo tempestati da informazioni discordanti o distorte, ma Zerocalcare presenta un volto spesso sottovalutato e del tutto diverso da quanto viene propinato dall’informazione su cui possiamo contare. In quelle regioni, uomini e donne programmano esperimenti di convivenza pacifica fra le etnie e di partecipazione democratica alla determinazione delle politiche delle realtà statuali emergenti, sebbene ancora non riconosciute dalla comunità internazionale. Queste zone, per certi versi, possono essere associate a ghetti dall’estensione molto ampia, in quanto circondati da nemici che pressano sulle loro frontiere, ma nonostante tutto sono realtà che cercano di mantenere le distanze dai governi loro avversari, a differenza di quanto accaduto in passato**.
essere eventi ripresi dal passato privi di attinenza con il presente, o appaiono come digressioni piene di retorica e vuote di concretezza. La storia invece si ripete anche oggi, e i problemi relativi all’esclusione e alla ghettizzazione di minoranze etniche si ripropongono in zone dell’Asia Minore distanti circa “3000 km da Rebibbia” (cit.

Bisogna comprendere come la ghettizzazione, pratica che la moderna civiltà dovrebbe aborrire in quanto disumana, sia uno degli strumenti violenti con cui si costruisce l’idea di una nazione e si sostiene la nascita di legami interpersonali che cementano tra loro i componenti di una società.
In questo discorso si impone la voce di Carl Schmitt, che nel saggio intitolato Il concetto politico (1927) formula la teoria dicotomica dell’amico-nemico. Procedendo dalle sue teorie e semplificando i concetti presenti nel saggio citato, ci appare chiaro come in ambito politico la fazione dell’amico viene incarnata da tutti coloro che sono tra loro eguali, individui che condividono stesse esperienze culturali, stesso territorio, stessa lingua. La controparte del nemico si sviluppa attraverso la figura dello straniero che si fa ambasciatore di una visione del mondo parzialmente o diametralmente opposta rispetto a quella con cui entra in contatto.
La distinzione tra amico e nemico non reca in sé il germe del conflitto armato né della ghettizzazione. Il processo di riconoscimento e di avvicinamento tra coloro che si ritengono amici e il confronto con la controparte del nemico sono alla base di quello che è a tutti gli effetti un meccanismo meramente politico. È il motore propulsore della formazione della coscienza politica e del confronto costruttivo che sta alla base di ogni processo decisionale. Il confronto amico-nemico innesca quelle dinamiche per cui si rende possibile la partecipazione tanto auspicata anche da Hannah Arendt nella sua opera Vita Activa, che prende a modello proprio i termini del confronto politico. Se ne deduce che lo scontro dialettico tra amico e nemico non dimostra di avere una connotazione negativa congenita ed è un processo talmente naturale da avvertirsi non solo nelle relazioni tra interno-esterno di una realtà nazionale, ma anche dentro la stessa nazione, nelle relazioni politiche tra le varie anime che intavolano un discorso.

Non si può negare però che, se si riflettesse sulla dicotomia amico-nemico, dalla contrapposizione tra gli opposti potrebbe discendere un’idea connotata negativamente per la quale una diatriba esacerbata sfocia nella nascita di fondamentalismi di vario genere che, una volta assurti a maggioranza nel contesto politico, potrebbero mettere a tacere il nemico, spogliando la politica della sua natura di confronto libero e pluralista.
In breve, è normale per coloro che controllano una determinata area profondere i propri sforzi nella difesa della propria identità. È altrettanto giusto cercare di mantenere la propria diversità davanti a influssi esterni. Tuttavia, appare chiaro come in un mondo civilizzato e ormai globalizzato la difesa dell' identità non possa passare attraverso l’innalzamento di barriere anacronistiche ai flussi migratori. Nemmeno la ghettizzazione e la chiusura in se stessi, al fine di escludere il diverso dal proprio orizzonte, faranno scomparire la possibilità di una contaminazione. Se la storia ci insegna qualcosa, così come la letteratura, generalmente sono proprio i sistemi chiusi che basano la loro sopravvivenza sull’esclusione, sulla sopraffazione delle minoranze, quelli che per prima fanno i conti con l’arretratezza e l’incapacità di fronteggiare sfide che il progresso mondiale lancia costantemente.


*Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda, 2002, p. 9

**All’inizio del Novecento molte tribù curde in Turchia erano state inquadrate nei ranghi della coalizione con i Giovani Turchi. I quadri direttivi del partito dei Giovani Turchi si fecero promotori del genocidio armeno nel corso della Prima Guerra Mondiale e, in quel periodo, i curdi si consideravano parte del territorio turco, con l’autonomia tipica concessa dal decadente sistema di integrazione ottomana. I curdi presero parte e aiutarono il governo nazionalista nella deportazione e nel massacro degli armeni. Dal 1934, sotto la Presidenza di Mustafa Kemal Atatürk, iniziò la persecuzione contro i curdi in Turchia. L’inasprimento contro i curdi trovò il culmine nel periodo compreso tra gli anni Sessanta e Ottanta, quando i colpi di stato militari in Turchia si susseguirono e misero fuori legge ogni partito politico, compreso il PKK (Partito dei Lavoratori del Kurdistan), fondato negli anni Settanta sull’ideologia marxista-leninista, che richiedeva la nascita di uno Stato curdo indipendente all’interno dello stato turco. A seguito dei primi fallimenti, il partito ripiegò non più sulla richiesta dell’indipendenza, ma dell’autonomia. Il conflitto si è inasprito dal 1999, con l’arresto di Öcalan, fondatore del partito. Il conflitto è continuato a fasi alterne tra cessate il fuoco e scontri per il restante ventennio.


BIBLIOGRAFIA:
Gimpel l’Idiota, Isaac B. Singer
Ogni cosa è illuminata, Jonathan Safran Foer
Lit&Lab – From the Origins to the Augustan Age
Colui che ride, Maria Felicia Schepis
Vita Activa, Hannah Arendt
Notre-Dame de Paris, Victor Hugo
La lettera scarlatta, Nathaniel Hawthorne
Kobane Calling, Zerocalcare
Il genocidio degli armeni, Marcello Flores
http://www.bbc.com/news/world-europe-20971100

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