Metroland, Julian Barnes
Einaudi
228 pagine, 15 euro
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Le vicende che si snodano all'interno di Metroland raccontano la storia di Chris, dapprima liceale sdegnante della vita borghese, poi universitario dedito al vizio e, infine, adulto che vive integrato nella società, dopo aver rinunciato agli ideali rivoluzionari e al primo amore, ingabbiato da un lavoro rassicurante e un matrimonio imperfetto. Questi ultimi sono il pretesto per ricordare il passato, l'amicizia con Toni, la vita ai tempi delle rivolte studentesche e quando esisteva solo la letteratura.
Un romanzo di formazione, dunque, il cui risultato è un protagonista inetto, incapace di rimanere coerentemente fedele ai propri ideali, così codardo da lasciarsi scappare la fidanzata francese dei tempi dell'università, colpevole di pensare che diventare adulti non dovesse necessariamente significare scendere a compromessi con la società e svendersi ad essa per potersi realizzare.
Tutta la giovinezza di Chris, passata ad analizzare ogni cosa attraverso il connubio tra Vita e Amore, si disperde nella scelta più facile e sicura. A dimostrazione della discrepanza tra l'adolescenza e l'età adulta, Chris capisce di non riuscire più a intendersi con Toni, rimasto fermo nelle sue posizioni antiborghesi. Facendo un resoconto dell'idea che mi son fatta di quella che potrebbe essere la fine della storia, volutamente lasciata in sospeso dal narratore, Chris è così ossessionato dall'estetismo della perfezione da non rendersi conto che la felicità risiede negli alti e bassi di una relazione e che il vero compromesso consiste nell'essere soddisfatti di ciò che si è nonostante la vita si presenti diversa da quella che ci eravamo immaginati.
Leggere Barnes è una delle cose più irritanti e indisponenti che mi siano mai capitate. L'ho pensato ai tempi de Il senso di una fine, ma è sentimento comune anche a quest'ultima lettura. Ma da sadica lettrice quale sono, potrò dare una definitiva opinione della narrativa dell'autore solo dopo aver letto un terzo libro - così come ho fatto con Lesley Lokko, capendo al terzo volume che il suo problema era girare intorno alle stesse trame e strutture narrative.
Quello che davvero mi ha fatto odiare Metroland è stata la presunzione con cui il protagonista crede di conoscere il mondo sin da bambino, ritenendosi un'esistenzialista alla Sartre, giocherellando con le parole come fosse un linguista, ma in realtà utilizzando mescolanze tra l'inglese e il francese per elevarsi rispetto ai coetanei. Con insolita ironia, Barnes gioca a un quiz e, piuttosto che dare un'univoca risposta, spiazza il conduttore con un monologo lungo e inutile sulla filosofia francese, della quale, a quanto pare, è un gran cultore. Tutto questo mi è sembrato in alcune parti ridondante e inutile, forse mettendo in luce il fatto che ciò che più mi disturba degli scrittori degli anni '80 è la (comprensibile) emulazione della letteratura francese a loro contemporanea, non ricordando che lo stile che tanto cercano di far proprio è più confacente a un saggio filosofico che ad un romanzo.
Ecco perché la parte più difficile del romanzo si è rivelata essere la prima, fino a pagina 70 più o meno, dove a volte Chris e Toni sembrano discutere senza alcun filo logico. Ammetto che arrivata a metà volume, cosa che all'inizio mi sembrava un insormontabile scoglio, Metroland si è fatto apprezzare fino alla fine per quello che è davvero: un buon romanzo (per essere d'esordio, visto che fu il primo pubblicato da Julian Barnes) dove la trama non ha nessuna valenza, se non quella di fare apprezzare i turbamenti psicologici di un ragazzo che potrebbe benissimo rispecchiare noi stessi. Il sarcasmo serve a dimostrarci che l'uomo è un essere mutevole che ha bisogno sempre di riconfigurarsi. L'unico modo per farlo è guardare al passato non con rimpianto, ma con la consapevolezza che gli eventi non possono cambiare, e che la vera differenza è data dal modo in cui ci approcciamo al presente, dimostrando a noi stessi che, nonostante gli enormi cambiamenti subiti, possiamo ancora esser felici.
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