Ciao a tutti! La scorsa settimana mi sono laureata e, siccome una ragazza mi ha chiesto un video sulle modalità con cui ho raccolto la bibliografia, ho deciso di ampliare l'argomento parlando della mia tesi in generale, e quindi di editoria, selfpublishing e minimum fax (su cui ho incentrato la seconda parte della relazione). È un video destinato a pochi interessati, motivo per cui a breve usciranno video più frivoli e facili da seguire (a proposito: a qualcuno interessa un video sui regali di laurea? Quello sui libri che mi hanno regalato sarò costretta a girarlo a metà agosto). Spero riusciate ad arrivare alla fine! XD
venerdì 31 luglio 2015
Parlando di editoria, selfpublishing e minimum fax: la mia tesi di laurea
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lunedì 27 luglio 2015
Al di là della scrivania, l'ufficio è d'ispirazione letteraria
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Se nell'Ottocento Dickens aveva fatto della descrizione delle condizioni disumane imposte agli operai nelle fabbriche la punta di diamante della sua narrativa, le sale d'ufficio sono oggi il più inflazionato dei set letterari. Se a partire dagli anni Trenta fino agli inizi del nuovo secolo il focus era centrato sulla denuncia della classe dirigenziale e delle illegalità commesse dai colletti bianchi[1], adesso non solo si indaga sul rapporto tra settori amministrativi e staff di supporto, ma anche sulle relazioni che intercorrono tra colleghi che svolgono la stessa mansione. Dalla narrativa tout court ai romanzi erotici, non c'è promozione, licenziamento o amplesso che si svolga in assenza di una postazione completa di scrivania, computer e seduta ergonomica.
![](http://i39.tinypic.com/140cgvq.jpg)
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Naturalmente questi sono solo alcuni degli innumerevoli titoli che riguardano l'argomento. Kundera direbbe che il romanzo è “l’ultimo osservatorio dal quale si possa abbracciare la vita umana nel suo insieme”[2]. Dello stesso avviso sembra essere Alice Furse[3], sostenendo che al centro dei romanzi ambientati in ufficio ci sarebbe qualcosa di più trascendentale: un universo fatto di disagi celati dietro ad abitudini volte a mantenere lo status quo. La deriva alienante dei protagonisti di tali romanzi è evidenziata dall'impossibilità di scindere lo spazio privato da quello pubblico, dove il secondo ha maggiore impatto sul primo per le pressioni alle quali ognuno di noi è sottoposto sul luogo di lavoro. Soprusi perpetuati dalle sfere più alte, mancati riconoscimenti, incertezza della durata dell'incarico ci portano a familiarizzare con i protagonisti e ad identificarci empaticamente con loro. Ovviamente, il lettore è conscio del fatto che alle situazioni-limite della realtà lavorativa non è sempre possibile porre rimedio, tanto da dover ammettere "la propria impotenza di fronte alle forze che circondano noi e le nostre banali esistenze". Queste storie hanno il pregio di espletare al meglio il ruolo della letteratura: farci sentire meno soli, facendo i conti con la personale esperienza ed esorcizzando la paura di vedere il proprio io annientato sotto il peso della quotidianità.
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[1] Erwin Sutherland, I crimini dei colletti bianchi, 1949. Questo sociologo-criminologo, conosciuto soprattutto per aver elaborato la teoria dell'associazione differenziale, una teoria criminologica generale che insisteva sul fatto che il comportamento deviante, come anche quello conforme, fossero frutto di apprendimento delle dinamiche caratterizzanti di un certo contesto sociale. Nello specifico, inventò egli stesso la definizione di "colletti bianchi", spiegando che anche le classi dirigenziali sono soggette all'apprendimento della criminalità ma, a differenza dei ceti bassi, i loro non sono crimini "di strada", ma illeciti che coinvolgono e influenzano grandi sfere della società, compromettendo il benessere e la stabilità.
[2] Milan Kundera, Il sipario, Adelphi, 2005, citato in Gianfranco Rebora, Letture e visioni. Il management attraverso il cinema e la letteratur,http://www.biblio.liuc.it/ liucpap/pdf/178.pdf
[3] Alice Furse, Bad days at the office: the novels that turn work into a private hell, 21 Luglio 2015, The Guardian on-line,http://www.theguardian.com/ books/booksblog/2015/jul/21/ best-office-novels-desk-job- hell-amelie-nothomb-jenny- turner-helen-phillips-lydie- salvayre
giovedì 23 luglio 2015
Lo spionaggio nella letteratura russa tra Lermontov e Nabokov
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Lo scrittore Michail Lermontov |
Lo spionaggio in Russia ha sempre avuto una certa importanza: già durante il regno dello zar Nicola I (1796-1855) era stato ideato un sistema di controllo e repressione sociale, a seguito della rivolta dei Decabristi (1825). Lo scrittore Michail Lermontov (1814-1841), personaggio avventuroso e romantico morto come Puškin in duello, subisce le persecuzioni del regno di Nicola I e viene inviato a combattere sul Caucaso per una poesia (La morte del poeta) considerata sovversiva.
Nel ‘900 invece il potere passa alle varie polizie politiche, tra cui la Čeka, antenata del celebre KGB. Vladimir Nabokov (1899-1977) lascia la Russia insieme alla famiglia dopo la rivoluzione del 1917 e si trasferisce in Gran Bretagna, poi a Berlino, Parigi e infine negli Stati Uniti. Condivide la vita degli émigrés e con loro anche il sospetto e il timore di essere circondato da occhi indiscreti. In seguito alla Rivoluzione d’Ottobre, infatti, più di ventimila russi, tra cui molti scrittori e intellettuali, furono costretti ad abbandonare la loro patria per evitare il controllo, il silenzio o peggio la morte; si recarono in larga parte in Finlandia, poi in Francia, a Parigi.
Lo spionaggio non è però solo qualcosa di concreto ma può essere anche visto come una strategia di informazione che si propone di svelare ai personaggi e poi al lettore determinati fatti in modo indiretto. Nell'introduzione al romanzo Un eroe del nostro tempo (1840) di Michail Lermontov, Vladimir Nabokov discute uno dei metodi grazie ai quali lo scrittore può mandare avanti l'intreccio, definendolo "eavesdropping", ovvero ascoltare di nascosto: molto spesso i personaggi principali del romanzo incontrano per puro caso qualcuno, assistono ad una scena importante per gli avvenimenti futuri e quasi sempre sentono una conversazione rivelatrice. L'uso continuo di queste strategie convince il lettore dell'esistenza di una sorta di fato superiore che domina tutta la narrazione. Secondo Nabokov queste tecniche, che si servono di quelle che poi sembrano ad una prima analisi semplici coincidenze, risultano obsolete se non addirittura stantie.
Nel romanzo breve L'occhio (1930), Nabokov stesso propone un vero e proprio studio dei metodi fondamentali per fornire al lettore nuove informazioni e introdurre ulteriori aspetti dei personaggi. Tra questi abbiamo lo spionaggio, inteso però in modo diverso e più ampio rispetto all' "eavesdropping" di Lermontov. Le intercettazioni di cui Nabokov si serve sono infatti di vario tipo: materiale/letterario, in particolare lettere e stralci di biglietti; medianico, tramite appunto le grottesche sedute spiritiche tenute dal libraio ebreo Weinstock; uditivo, in questo ricordano l'origliare apparentemente casuale del romanzo di Lermontov; infine di un tipo nuovo che potremmo definire mentale, legato al ruolo particolare del narratore. Possiamo quindi dire che Nabokov utilizza in modo più variegato e meno banale gli stessi stratagemmi che un tempo erano stati del suo illustre predecessore Lermontov, dimostrando di averlo in un certo senso superato. Questi metodi diventano poi addirittura un tema che sta alla base del suo romanzo. Rispetto però allo stile di Lermontov, Nabokov sceglie un'ambientazione quotidiana e con la consueta ironia mette in scena una forte caratterizzazione dozzinale e "filistea", suo modo originale di definire una persona materiale e scontata, con una mentalità caratterizzata da idee correnti e convenzionali della cerchia e dell’epoca a cui appartiene.
Lo spionaggio si nasconde anche all’interno di noi stessi: ci analizziamo, scopriamo risvolti segreti e a volte ci nascondiamo dietro a un pensiero. Siamo spie perché veniamo a contatto con il nostro inconscio, spesso un’altra persona rispetto a noi, cerchiamo di capirlo e sfioriamo argomenti di cui a volte ignoriamo addirittura l’esistenza. Questo estremo spiarsi può essere anche inteso come una difesa dalla società in cui Nabokov e noi tutti siamo costretti a vivere. Creando dei finti alter ego e sdoppiando la nostra personalità riusciamo a non farci toccare troppo dal mondo; se veniamo feriti possiamo infatti prendere di volta in volta le distanze dall'immagine che proiettiamo in quel momento ed essere comunque sufficientemente sereni. Ed è proprio questo dividersi tra io pensante, costantemente dedito all'analisi e allo spionaggio di se stesso e del mondo, e io agente, interessato più che altro ai fatti immediati, che troviamo nel romanzo di Nabokov.
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Vladimir Nabokov |
Un ultimo livello, infine, sempre riguardante lo spionaggio, è quello più realistico contenuto nella struttura e nell'ambientazione stessa de L’occhio, impostato in parte come un giallo o una spy story, se non addirittura nel titolo originale Sogljadataj, ovvero l’antico termine militare per definire le spie. Il risvolto militare si applica in questo caso al contesto politico-internazionale dell'Europa nel 1930 e dell'emigrazione russa. La Berlino che Nabokov racconta è infatti una città oscura e inquietante dove le spie sovietiche sembrano essere ovunque e gli émigrés russi si comportano in modo circospetto cercando di non dare troppo nell'occhio. Nabokov sceglie di ridicolizzare il protagonista, facendo di lui una macchietta, quasi una spia fallita: lo vediamo infatti più volte fraintendere una soffiata o non afferrare subito un chiaro riferimento. Sottolineando l’incapacità del personaggio, Nabokov riesce a raggiungere un obiettivo ancor più coraggioso e provocatorio, ovvero prendersi gioco di tutto il sistema di spionaggio sovietico, uno tra i più temibili e mortali, capace di colpire un russo espatriato anche a grandi distanze dalla madrepatria, e schernire allo stesso tempo le paranoie degli émigrés, spesso preda di pericoli dettati in parte dall’immaginazione.
Ad ogni modo l'obiettivo di Nabokov non è di tipo letterario ma nasconde più che altro un messaggio filosofico ed esistenziale condivisibile per quanto estremo. Il significato che sottende questo continuo spiare e soprattutto spiarsi è che in definitiva piuttosto che trovare la vera essenza del nostro io è sempre più facile continuare ad analizzarsi e cercarla. Ognuno di noi effettivamente non ha un solo carattere ben preciso ed è semplice rendersi conto di come spesso non siamo tutto quello che pensiamo di essere o di trasmettere. Per Nabokov esistono solo le varie interpretazioni che gli altri hanno di noi e queste spesso non coincidono tra di loro. Se L'occhio di Nabokov parte quindi come una ricerca quasi empirica dell'io più profondo del protagonista, l'analisi dell’autore si conclude dando una risposta negativa al problema riguardante la possibilità di conoscere più o meno esaurientemente l'animo umano.
Nabokov aveva già parlato di spionaggio, sempre in modo molto ironico e alternativo, nelle sue Lezioni di letteratura russa (tenute alla Stanford University nel 1941 e pubblicate poi nel 1981 in inglese e nel 1987 in italiano). Qui scorreva in rassegna numerosi autori russi, donandoci perle di saggezza e di piccante sarcasmo. Tra le sue “vittime” abbiamo anche lo scrittore Maksim Gorkij (1868-1936), considerato il Cantore della Rivoluzione e padre del realismo socialista, poi morto di polmonite o forse sospetto avvelenamento. Nabokov descrive con precisione gli “agenti segreti” davanti alla casa di Nižnij Novgorod, dove Gorkij si era rifugiato, e riesce a ricreare un’atmosfera nebbiosa e cupa che immerge il lettore completamente: un poliziotto è seduto su una panchina e finge di guardare il cielo, un altro è appoggiato ad un lampione con un giornale aperto. Addirittura l’autista personale di Gorkij sembra coinvolto. Tutti si comportano in modo strano. Nabokov insinua in chi legge un dubbio più o meno esplicito: queste persone sono veramente agenti? Dal racconto traspare la sottile paranoia di essere osservati e la semplicità di vedere qualcosa di misterioso dietro ad attività apparentemente normali, fobia che aveva colpito addirittura Stalin negli ultimi anni del suo potere e della sua vita. Anche se, per esperienza letteraria, in Unione Sovietica le coincidenze non esistono, o meglio non esistevano, e lo spionaggio era una parola di uso comune ma sottaciuta da molti.
lunedì 20 luglio 2015
Recensione: Furore di John Steinbeck
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Furore, John Steinbeck
Bompiani
633 pagine, 12.00 euro
|
che dovrebbero autodefinirla. In via pratica, la letteratura si riconosce “a pelle” quando la leggi.
E mai credo che esisteranno indicatori tanto validi quanto la nuda percezione di averla trovata, dopo aver sfogliato qualche pagina.
Sembrerebbe facile spiegare i motivi per cui Furore sia letteratura, ma se ci azzardassimo a usare canoni predefiniti forse questo capolavoro non li centrerebbe tutti.
Nel mio caso, conditio sine qua non è sempre stata il “bello stile”; ma per quanto Steinbeck alterni brevi capitoli molto lirici, Furore si presenta per lo più come un romanzo dialogato in cui gli attori, umili e ignoranti, si esprimono con una certa approssimazione e una grammatica scorretta. Mi torna allora alla mente la poetica del Vero di Manzoni, secondo cui un romanzo deve prima di tutto rappresentare il Vero storico – in contrapposizione con le tendenze esasperate, fantastiche e talvolta irreali del romanticismo europeo – attraverso l'elevazione degli umili – e del loro linguaggio – a protagonisti della vicenda. C'è forse in Steinbeck, così come c'era in Manzoni, l'esigenza di un impegno morale e civile. Sicuramente, Furore è una denuncia sociale nei confronti del Governo, incapace di rispondere ai problemi dei suoi cittadini. L'effetto di questa denuncia fu, a mio avviso, imbarazzante: tacciato di comunismo (è pur sempre la storia di una famiglia di onesti lavoratori sfruttati dal capitalismo delle banche) e di chissà cos'altro, venne censurato e dato al rogo. Le motivazioni vanno rintracciate, probabilmente, nell'incredibile capacità dell'autore di fare emergere da questi scarni dialoghi una saggezza popolare che si fa universale, una vicinanza alla verità storica, appunto, che raggiunge vette altissime grazie alla massima efficacia dello stile, in cui il detto e il non detto si alternano e creano un mosaico di estrema vividezza e omogeneità.
L'analisi della situazione subita della famiglia Joad, che migra verso la California in cerca di lavoro e di condizioni di vita migliori, è spietata e puntuale: l'istruzione è una chimera, ma anche uno strumento di sopraffazione («Non gli piacciono queste cose da ricchi. Non gli piace manco scrivere le parole. Gli mette paura, mi sa. Ogni volta che Pa' ha visto roba scritta era qualcuno che gli portava via qualcosa»); il carcere, dove è stato rinchiuso per omicidio uno dei protagonisti, trasforma l'uomo in bestia e non ha alcuno scopo riabilitativo; la religione ha perso ogni conforto, e viene rifiutata anche dai suoi emissari perché vista troppo distante dalla vita reale; i tradizionali ruoli familiari sono invertiti: come ad esempio accade in un altro romanzo americano ambientato nel periodo post-Depressione, Mildred Pierce, sono le donne a prendere le decisioni, a tenere il polso fermo e a spodestare i capifamiglia uomini, che perdono di virilità diventando delle macchiette inette, mentre le mogli finiscono addirittura con il minacciarli di usare il bastone.
La fame, altra protagonista del romanzo, incombe in maniera angosciante sui personaggi, che tuttavia hanno ancora la forza di sperare in un domani migliore e che non perdono la propria integrità. Sono, questi, degli eroi letterari, ma talmente comuni e verosimili da “bucare” la pagina e trasformare l'esperienza della lettura in una travagliata presa di coscienza dell'autentico significato della parola “miseria”, anche quando accompagnata da quello della parola “coraggio”. La tempra morale dei personaggi, che sono poi l'emblema del popolo, si contrappone alla meschinità di chi – entità indefinita – sfrutta il lavoro manuale anche dei bambini e delle donne incinte, corrispondendo salari insufficienti al fabbisogno nutrizionale giornaliero individuale. E il furore degli “affamati” consegue al delitto che viene perpetrato nei loro confronti: il cibo prodotto in eccesso finisce per marcire anziché venire ridistribuito, nonostante i più piccoli muoiano di pellagra.
Il titolo originale, The grapes of wrath, riecheggia un motivo inserito nell'Apocalisse (nel testo, lo rintracciamo nelle righe: «Nell'anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia») e la trama del romanzo sembra in effetti assumere i contorni di un esodo biblico, dove però si è smarrita la voce di un dio giustiziere e vendicativo che guida il popolo eletto verso la terra promessa. I Joad sono soli davanti alla crudeltà di questa situazione, e possono soltanto appellarsi alla propria fede e buona volontà per superarla. Di sublime potenza espressiva sono i capitoli dai toni lirici e i dialoghi già citati, ma soprattutto alcune scene dove la straordinarietà della scrittura di Steinbeck si riflette in composizioni di forte impatto emotivo. Così si conclude un romanzo imponente che vuole richiamare istinti e immagini ataviche: con il seno nudo e gonfio offerto da una donna che ha appena partorito a un uomo che sta morendo di fame.
Voto: ![](https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEisT2LQaGKOAV9eDI6lfgrZ5NY0wDVYkl3NHedPHMpyLCcA7Y7VTW5b-iHiCRYYGTjA_EwSXFeqJ3rFafdaf-W6YVjXMX2GHLRCIenSTNJsHTI8Wxfv0rmezSIx6Z63K-Qpz4ZlCL_gQJE/s1600/pieno.png)
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La fame, altra protagonista del romanzo, incombe in maniera angosciante sui personaggi, che tuttavia hanno ancora la forza di sperare in un domani migliore e che non perdono la propria integrità. Sono, questi, degli eroi letterari, ma talmente comuni e verosimili da “bucare” la pagina e trasformare l'esperienza della lettura in una travagliata presa di coscienza dell'autentico significato della parola “miseria”, anche quando accompagnata da quello della parola “coraggio”. La tempra morale dei personaggi, che sono poi l'emblema del popolo, si contrappone alla meschinità di chi – entità indefinita – sfrutta il lavoro manuale anche dei bambini e delle donne incinte, corrispondendo salari insufficienti al fabbisogno nutrizionale giornaliero individuale. E il furore degli “affamati” consegue al delitto che viene perpetrato nei loro confronti: il cibo prodotto in eccesso finisce per marcire anziché venire ridistribuito, nonostante i più piccoli muoiano di pellagra.
Il titolo originale, The grapes of wrath, riecheggia un motivo inserito nell'Apocalisse (nel testo, lo rintracciamo nelle righe: «Nell'anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini, e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia») e la trama del romanzo sembra in effetti assumere i contorni di un esodo biblico, dove però si è smarrita la voce di un dio giustiziere e vendicativo che guida il popolo eletto verso la terra promessa. I Joad sono soli davanti alla crudeltà di questa situazione, e possono soltanto appellarsi alla propria fede e buona volontà per superarla. Di sublime potenza espressiva sono i capitoli dai toni lirici e i dialoghi già citati, ma soprattutto alcune scene dove la straordinarietà della scrittura di Steinbeck si riflette in composizioni di forte impatto emotivo. Così si conclude un romanzo imponente che vuole richiamare istinti e immagini ataviche: con il seno nudo e gonfio offerto da una donna che ha appena partorito a un uomo che sta morendo di fame.
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sabato 18 luglio 2015
"Libri? Soldi sprecati!": le frasi più assurde dei NON lettori
Ciao a tutti!
Torno con questo video sull'ennesima situazione che noi, poveri lettori, ci troviamo ad affrontare quando siamo in compagnia di qualcuno che non legge. Quante frasi sprezzanti e quanti cuori spezzati? Fatemi sapere le dichiarazioni più assurde che avete sentito e uniamoci in questo cordoglio senza speranza.
venerdì 17 luglio 2015
Il tempio degli Otaku #109: Excel Saga, di Koshi Rikudo
Salve a tutti, e benvenuti ad una nuova puntata de "Il Tempio degli Otaku"! La parola "originale" viene spesso maltrattata e usata a sproposito: ma in questo caso è l'unica possibile. Anzi, è addirittura riduttiva: è solo originale una serie che diventa ad ogni puntata di un genere diverso, che si fa un punto d'onore nel parodiare più cliché possibili delle opere giapponesi, che vive di eccentricità e sospensione di credulità? Questi sono gli ingredienti di Excel Saga, anime tratto dall'omonima serie di Koshi Rikudo. Seguiteci nella recensione per immergervi nel suo folle mondo. Buona lettura (e visione)!
A questo punto seguirebbe la descrizione della trama. Peccato solo che l'anime non abbia una trama, nemmeno all'interno dei singoli episodi. Dovremo perciò accontentarci delle premesse generali. Nella città F. della prefettura di F. ha sede l'Across, organizzazione segreta il cui scopo è conquistare il mondo. Il suo fondatore, Il Palazzo, escogita e medita a getto continuo piani da affidare alle sue fidate (uniche) sottoposte: l'esuberante Excel e la dolce Hyatt, affetta dal "brutto vizio di morire". Tra una missione fallita e l'altra seguiremo anche le vicende di Frattaglia, la sfortunata cagnolina di Excel, di Pedro - immigrato brasiliano molestato, e non solo in senso figurato, dal destino - dei vicini di casa della protagonista e del misterioso Nabeshin, alter ego del regista Shinichi Watanabe. E questo è solo l'inizio...
![](http://media.comicsblog.it/e/exc/excelsaga_01.jpg)
![](http://animeseed.com/animeseed/anime_pics/excel_saga_01.gif)
Tra una scena assurda e l'altra, però, si può intravedere una sferzante critica alle convenzioni: il regista preme per reintrodurre sulla scena un personaggio morto in maniera cruenta perché ha già fatto iniziare la produzione di massa di action figure; un giornalista di belle speranze, di fronte alla scena di distruzione (e di vomito verde) che si trova davanti, non pensa che alle sue possibilità di fare carriera; in un episodio ambientato in piscina i personaggi maschili non riescono mai a farsi inquadrare, a scapito delle belle donne in costume da bagno. Si fa per ridere, ovviamente... O forse no?
... E con questa nota seria - stonata - si conclude la puntata di oggi. Arrivederci al prossimo appuntamento de "Il Tempio degli Otaku"!
sabato 11 luglio 2015
TBR estiva: i libri che ho intenzione di leggere questa estate
So che sto pubblicando questo video in una data molto ravvicinata rispetto all'ultimo, ma la TBR estiva non poteva aspettare ancora a lungo! Ecco i libri che ho intenzione di leggere questa estate, nove titoli in tutto che spaziano dal fantasy ai libri per ragazzi ai classici.
La TBR è tuttavia indicativa, perché per quanto mi ostini a compilarne finisco sempre per non rispettarle! XD Vi mostro qui un altro pezzo della mia libreria che non sarà inserito in Unread Books Tag, per non rischiare di riproporvi gli stessi libri.
Avete letto questi romanzi? Qualcuno di questi si trova anche nella vostra TBR?
P.s.: la qualità di questo video fa schifo perché ho ritagliato l'immagine in modo che fosse una 16:9 (assurdamente il mio Samsung Galaxy fa solo filmati a 4:3), ma, visto il risultato, credo tornerò ai video originali e pazienza per le strisce nere ai lati.
EDIT: Stiamo raccogliendo le foto delle vostre TBR sulla pagina facebook del blog, che trovate QUI.
Mandatele anche voi per messaggio privato e scambiamoci i titoli estivi! ^.^
giovedì 9 luglio 2015
Recensione: Metroland di Julian Barnes
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Metroland, Julian Barnes
Einaudi
228 pagine, 15 euro
|
Le vicende che si snodano all'interno di Metroland raccontano la storia di Chris, dapprima liceale sdegnante della vita borghese, poi universitario dedito al vizio e, infine, adulto che vive integrato nella società, dopo aver rinunciato agli ideali rivoluzionari e al primo amore, ingabbiato da un lavoro rassicurante e un matrimonio imperfetto. Questi ultimi sono il pretesto per ricordare il passato, l'amicizia con Toni, la vita ai tempi delle rivolte studentesche e quando esisteva solo la letteratura.
Un romanzo di formazione, dunque, il cui risultato è un protagonista inetto, incapace di rimanere coerentemente fedele ai propri ideali, così codardo da lasciarsi scappare la fidanzata francese dei tempi dell'università, colpevole di pensare che diventare adulti non dovesse necessariamente significare scendere a compromessi con la società e svendersi ad essa per potersi realizzare.
Tutta la giovinezza di Chris, passata ad analizzare ogni cosa attraverso il connubio tra Vita e Amore, si disperde nella scelta più facile e sicura. A dimostrazione della discrepanza tra l'adolescenza e l'età adulta, Chris capisce di non riuscire più a intendersi con Toni, rimasto fermo nelle sue posizioni antiborghesi. Facendo un resoconto dell'idea che mi son fatta di quella che potrebbe essere la fine della storia, volutamente lasciata in sospeso dal narratore, Chris è così ossessionato dall'estetismo della perfezione da non rendersi conto che la felicità risiede negli alti e bassi di una relazione e che il vero compromesso consiste nell'essere soddisfatti di ciò che si è nonostante la vita si presenti diversa da quella che ci eravamo immaginati.
Leggere Barnes è una delle cose più irritanti e indisponenti che mi siano mai capitate. L'ho pensato ai tempi de Il senso di una fine, ma è sentimento comune anche a quest'ultima lettura. Ma da sadica lettrice quale sono, potrò dare una definitiva opinione della narrativa dell'autore solo dopo aver letto un terzo libro - così come ho fatto con Lesley Lokko, capendo al terzo volume che il suo problema era girare intorno alle stesse trame e strutture narrative.
Quello che davvero mi ha fatto odiare Metroland è stata la presunzione con cui il protagonista crede di conoscere il mondo sin da bambino, ritenendosi un'esistenzialista alla Sartre, giocherellando con le parole come fosse un linguista, ma in realtà utilizzando mescolanze tra l'inglese e il francese per elevarsi rispetto ai coetanei. Con insolita ironia, Barnes gioca a un quiz e, piuttosto che dare un'univoca risposta, spiazza il conduttore con un monologo lungo e inutile sulla filosofia francese, della quale, a quanto pare, è un gran cultore. Tutto questo mi è sembrato in alcune parti ridondante e inutile, forse mettendo in luce il fatto che ciò che più mi disturba degli scrittori degli anni '80 è la (comprensibile) emulazione della letteratura francese a loro contemporanea, non ricordando che lo stile che tanto cercano di far proprio è più confacente a un saggio filosofico che ad un romanzo.
Ecco perché la parte più difficile del romanzo si è rivelata essere la prima, fino a pagina 70 più o meno, dove a volte Chris e Toni sembrano discutere senza alcun filo logico. Ammetto che arrivata a metà volume, cosa che all'inizio mi sembrava un insormontabile scoglio, Metroland si è fatto apprezzare fino alla fine per quello che è davvero: un buon romanzo (per essere d'esordio, visto che fu il primo pubblicato da Julian Barnes) dove la trama non ha nessuna valenza, se non quella di fare apprezzare i turbamenti psicologici di un ragazzo che potrebbe benissimo rispecchiare noi stessi. Il sarcasmo serve a dimostrarci che l'uomo è un essere mutevole che ha bisogno sempre di riconfigurarsi. L'unico modo per farlo è guardare al passato non con rimpianto, ma con la consapevolezza che gli eventi non possono cambiare, e che la vera differenza è data dal modo in cui ci approcciamo al presente, dimostrando a noi stessi che, nonostante gli enormi cambiamenti subiti, possiamo ancora esser felici.
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martedì 7 luglio 2015
Wrap up di giugno: i libri che ho letto
Ciao a tutti! Ecco il nuovo video in cui parlo delle poche letture di giugno. Mi dispiace di aver parlato brevemente di Steinbeck e Yates, ma spero di avervi dato quei pochi elementi per incuriosirvi (se non è così prendo appunti e faccio meglio la prossima volta). Le recensioni di Vergogna e di Dov'è finita Audrey? le trovate invece qui:
Vergogna
Dov'è finita Audrey?
Raccontatemi i vostri libri di giugno :)
lunedì 6 luglio 2015
Blogtour: Florence di Stefania Auci. Recensione e approfondimento storico-politico-letterario
Anche Dusty pages in Wonderland partecipa al blogtour di Florence, il nuovo libro di Stefania Auci che uscirà ufficialmente l'8 luglio per Baldini &Castoldi (416 pagine, 18.00 euro). Mi è stato chiesto dall'autrice uno speciale sul periodo storico e, in particolare, sulla disputa tra interventisti e neutralisti. Ho unito la recensione a questo approfondimento, che spero non sia eccessivamente noioso, ma che mi sembra importante per inquadrare il background molto curato costruito dall'autrice.
Florence si adagia su un letto irto di spine, quelle della Grande Guerra e della lotta intellettuale, ma anche della passione adultera e dell'emancipazione femminile: elementi che si alternano in maniera più o meno bilanciata, sebbene la storia sentimentale rappresenti il cardine della vicenda.
È l'estate del 1914.
Il clima è rovente, e non solo perché è agosto. È scoppiata la guerra in Europa, e l'eccitazione per questo evento serpeggia nei salotti più blasonati. L'eroismo e la difesa della patria esaltano gli intellettuali – primo tra tutti, ovviamente, Gabriele D'Annunzio, fondatore dell'Associazione Nazionalista Italiana – e infiammano l'opinione pubblica, fomentata dalle riviste più influenti.
È bene sottolineare (Stefania Auci lo fa) il peso del quarto potere: i redattori, i giornalisti, i cronisti indirizzano il dibattito, lo creano, lo alimentano, lo forgiano. Lacerba, con il suo gusto provocatorio e spesso fine a se stesso, intitola la prima pagina con lo slogan “Amiamo la guerra!”. Giovanni Papini, che sbuca dalle pagine del romanzo, ha infatti trasformato una rivista che era stata fino a quel momento solo eminentemente artistica in una delle più vivaci (per non dire violente) sostenitrici dell'interventismo.
La Voce, guidata da Prezzolini (lo sarà fino alla fine del 1914, quando l'indirizzo diverrà esclusivamente letterario, grazie alla conduzione del critico Giuseppe De Robertis) si è trasformata nel manifesto di Giovanni Gentile, il filosofo che sarà poi l'ideologo del fascismo. E persino i socialisti caldeggiano l'entrata dell'Italia in guerra: un editoriale interventista di Benito Mussolini, direttore de L'avanti, gli costerà la cacciata dal giornale e, in seguito, dal Psi. Sono solo alcuni dei protagonisti di quella estate. La guerra, incoraggiata anche dalle correnti artistiche (in particolare dal futurismo di Marinetti) sembra solo essere l'ultima che si aggiunge a una lunga fila: è diffusa la convinzione che durerà appena qualche mese, e che porterà grandi vantaggi, tra cui la restituzione delle terre “irredente”, Trento e Trieste, che si trovavano sotto il dominio austriaco. Ma sono cambiate diverse cose: la propaganda, le armi, il modo stesso di fare la guerra la rendono totalmente differente da quella dell'Ottocento. Adesso, mitragliatrici, cannoni, granate, gas asfissianti uccidono gli uomini come mosche, o, meglio, come topi braccati nelle trincee. Saranno 10 milioni a morire, un numero impressionante e mai visto, costituito da soldati imbevuti di ideologie nazionaliste che l'Europa farà fatica ad abbandonare (e che ancora oggi avvelenano certi estremismi di destra).
Sono molti i neutralisti – ma gli interventisti strepitano più forte: il Papa, Benedetto XV, che nella sua prima enciclica (Ad beatissimi Apostolorum, 1 novembre 1914) invoca la pace appellandosi ai governanti delle nazioni; Giovanni Giolitti, ex presidente del Consiglio, da poco sostituito da Salandra, che poi firmerà il patto di Londra con la Triplice Intesa (Gran Bretagna, Francia e Russia) trascinando l'Italia nella guerra; i socialisti sono spaccati, ma molti aborrano ancora la guerra.
![Florence](http://www.baldinicastoldi.it/public/uploads/2015/05/Florence.jpg)
Irene comprende subito la crudeltà della guerra e si oppone alla spinta bellicista di Ludovico, un uomo di ventotto anni in cerca di riscatto dalle umili origini. Ed è il riscatto, possiamo dire, che muove per vari motivi (personali e patriottici) chi vuole aprirsi alla guerra.
Intessendo una vicenda immersa in questo clima, Stefania Auci trae il meglio del background storico intrecciandolo con la storia d'amore tra i due protagonisti, facendo emergere gli aspetti più salienti del dibattito intorno alla guerra, caratterizzando bene il periodo anche dal punto di vista sociale. Sia nell'ambizioso Ludovico, che vuole scalare i vertici della piramide sociale sfruttando le conoscenze dell'amante (moglie di un noto avvocato), che in Irene, ragazza intollerante al conformismo francamente insopportabile dell'ambiente fiorentino, si rispecchiano le increspature di una società variegata, complessa e claustrofobica. Sarà la guerra – e questo non le si può negare – a cambiare le cose quando, nell'epilogo, noteremo una situazione molto diversa.
Stefania Auci ha il vezzo di intarsiare lo stile, ma è nei dialoghi che dà il meglio di sé, inserendo toscanismi e adattando bene il linguaggio a quello dei primi del Novecento, senza farlo per questo risultare pesante o eccessivo.
Florence risulta un prodotto scorrevole, che si fa leggere velocemente malgrado la mole. Alla terza prova letteraria della scrittrice, notiamo il ricorrere dei temi storici, l'affezione per determinati luoghi geografici e la caratterizzazione abbastanza ferrata dei vari personaggi. Un romanzo che non deluderà anche le più affezionate al romance, malgrado le scene crude di guerra e il dibattito politico che si fa invece seguire con molto interesse.
mercoledì 1 luglio 2015
Recensione: Il leopardo delle nevi di Peter Matthiessen
Il leopardo delle nevi, Peter Matthiessen
Beat
352 pagine, 9.00 euro
|
Il leopardo delle nevi di Peter Matthiessen è il racconto di un viaggio in uno dei luoghi più affascinanti che il nostro pianeta sa offrire: le pendici dell'Himalaya.
Nel 1973, su invito di George Schaller, un amico fotografo, l'autore parte alla volta del Nepal alla ricerca delle pecore blu e, con un po' di fortuna, del leopardo delle nevi, un animale così poco documentato da essere quasi mitologico.
Nelle pagine di Matthiessen ritroviamo i paesaggi e i panorami che ci hanno insegnato a conoscere autori come Marco Polo con il suo Milione, o Heinrich Harrer con il suo Sette anni in Tibet, che si collocano senza dubbio fra i migliori libri mai scritti sull'Asia.
Il leopardo delle nevi è da molti acclamato come un resoconto di viaggio scritto in modo magistrale e da amante del genere mi sono apprestata a leggerlo con le migliori aspettative, che, vi anticipo subito, sono state in parte deluse. Quello che mi aspettavo era infatti un interessante resoconto di viaggio con parti sulla vita e sui comportamenti del leopardo delle nevi e delle pecore blu. Il titolo è, purtroppo, del tutto ingannevole, il leopardo delle nevi si rivela un pretesto, non il soggetto narrativo.
Il primo punto che colpisce in negativo è che in Matthiessen non ho trovato la stessa attenzione per i dettagli di Harrer o Marco Polo. O meglio, c'è attenzione per i dettagli ma forse non per quelli giusti. I panorami si susseguono uno sull'altro e sono descritti con vividezza degna di una fotografia, così come i popoli incontrati, ma manca sempre l'attenzione per i modi di vivere, per la cultura dei luoghi, così come per gli animali incontrati e osservati. Quella di Matthiessen è in tutto e per tutto una bellissima foto che manca però del dato letterario. La cosa che mi ha fatto apprezzare particolarmente Harrer e mi ha delusa in Matthiessen è proprio questa mancanza di empatia con una cultura così diversa e interessante da scoprire e raccontare. Un'assenza che non comprendo visto che, all'epoca del viaggio, l'autore stava studiando il misticismo zen ed era quindi molto legato all'Asia. Fra le righe, si legge quasi una sorta di orgoglio per il suo cammino spirituale che lo rende superiore a coloro che incontra, che, pure, condividono la sua stesse fede, ma non hanno studiato come lui il cammino di questa fede. Se Matthiessen fosse un fotografo, sarebbe promosso a pieni voti, ma è uno scrittore che dovrebbe andare oltre l’aspetto evidente delle cose e tentare di scavare un pochino di più nella psicologia dei luoghi che attraversa. Nello stesso tempo, dovrebbe trasmettere le impressioni ricavate al lettore, che ne Il leopardo delle nevi non si percepiscono. Il lettore non si sente parte del libro e non viene trascinato in Nepal dalle sue pagine, ma ha la sensazione di trovarsi a una mostra fotografica, di cui subisce la fascinazione ma rimanendo con i piedi ben piantati nella galleria dell'esposizione.
Un'altra cosa che salta all'occhio è che il libro cerca di configurarsi come un resoconto scientifico del viaggio attraverso il Nepal, ma in realtà i dati presenti non sono sempre corretti e accurati. Si dice che la popolazione dei leopardi delle nevi rimangano appena 120 esemplari, mentre una rapida ricerca su internet per scoprire qualcosa di più su questo animale rivela che sono qualche migliaio, sebbene la loro elusività li renda difficili da contare.
A togliere credibilità scientifica è poi il taglio narrativo scelto, intriso di misticismo. Qualsiasi pretesto è valido per abbandonare la descrizione oggettiva dei paesaggi e passare a veri e propri trattati sulla filosofia zen e sulla religione buddista. Interessante all'inizio, ma, con il progredire delle pagine, l'approfondimento esagerato di questo aspetto allontana il lettore che, come me, è interessato ma non desidera studiare filosofia zen.
Questo aspetto è quello che più mi ha annoiata e reso difficile arrivare all'ultima pagine de Il leopardo delle nevi. Ci sono arrivata comunque, perché la scrittura è curata e piacevole, i passaggi con le descrizioni del Nepal, come già anticipato, sembrano dipinti e leggerne è come immergersi in essi. Matthiessen è bravissimo a raccontare ciò che vede, ma non ad approfondirlo.
Il leopardo delle nevi ha degli ottimi elementi che lo fanno risultare un buon libro, ma nel complesso è caotico per via della pretesa di mescolare un aspetto che dovrebbe essere scientifico con un spirituale troppo accentuato e che raramente interessa allo stesso lettore. Probabilmente, il problema principale sta proprio in questa parvenza di scientificità che lo porta ad attirare quindi il lettore sbagliato, mentre sarebbe più indicato per gli appassionati del misticismo di stampo asiatico.
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