Mario Vargas Llosa torna sui temi dell'intrattenimento letterario. Dopo La civiltà dello spettacolo (Einaudi, 2013), il Premio Nobel peruviano afferma ancora con forza l'imprescindibilità del valore civile della letteratura, all'interno di un discorso tenuto il 14 settembre 2015 all'Università di Palermo in occasione del conferimento della laurea Honoris Causa in Lingue e Culture Moderne dell'Occidente e dell'Oriente. Cercando di rispondere alla domanda “A che serve la letteratura?”, Vargas Llosa cita Sartre, secondo cui, ricorda, “le parole sono atti”, in nessun modo riconducibili all'intrattenimento. Mediante la letteratura si influisce sulla vita degli altri e sulla Storia, indirettamente, forgiando le coscienze.
La concezione di Sartre è superata, sostiene Vargas Llosa: in pochi condividono ancora queste idee; eppure, non si può credere che la lettura sia “un'attività senza conseguenze, con l'unico scopo di offrire un momento di svago alle persone”.
Vargas Llosa ha vissuto nei decenni della critica autorevole, in cui imperversavano accesi dibattiti di teoria della letteratura, dove argomenti come l'intenzione dell'autore dietro al testo, la ricezione del lettore, il rapporto tra finzione e realtà venivano analizzati chirurgicamente, con aspirazioni quasi scientifiche, anche quando si trattava di illazioni prettamente dialettiche. È rimasto sullo sfondo, comunque, il tarlo su cosa sia la letteratura e a cosa serva.
Forse perché erede di questa tradizione, Vargas Llosa continua a chiederselo, rimasto, credo, uno dei pochi a pensare che la domanda sia di capitale importanza. Ed è per questo che continua a essere fondamentale l'opinione di un grande scrittore, non solo in virtù del Nobel, quanto, se non di più, perché portavoce di un sistema – che io non credo obsoleto – ormai dimenticato.
Ho sentito dire, una volta, che la letteratura non serve a dare risposte, quanto a farci porre le domande giuste: così, interrogarsi ancora su cosa sia la letteratura – anche se forse non lo sapremo mai –, è imprescindibile per scoprire qualcosa di più anche sui noi stessi in quanto esseri umani.
Vargas Llosa risponde che la letteratura serve per intrattenere, senza dubbio, “non c'è niente che intrattenga di più di una poesia o di un grande romanzo; ma questo intrattenimento non è effimero, lascia un segno segreto e profondo nella sensibilità e nell'immaginazione”.
È una sedimentazione, possiamo dire: nelle menti più fervide, la grande letteratura lascia semi che germogliano in altre storie, o addirittura in azioni.
L'autore, nella stessa Lectio magistralis, d'altronde parla anche di come si scrive un romanzo. Non può allora non partire dalla propria genesi di lettore, cercando di spiegare prima di tutto perché si scriva letteratura. Una scelta totalmente sconveniente, perché poco redditizia, difficile, addirittura una condanna all'emarginazione. Non un hobby, qualcosa da fare nei ritagli di tempo, ma una vocazione a cui dedicare anima e corpo.
«Vocazione» è una parola tanto suggestiva da richiamare un'altra dimensione letteraria. Riempie un'area semantica che si avvicina al divino, alla predestinazione, all'ineluttabilità di un'attività che ti sceglie e davanti a cui non puoi tirarti indietro. Sono allora i temi a scegliere lo scrittore, non viceversa. Sono le esperienze, le letture, a forgiarci, a contribuire alla creazione letteraria, di cui lo scrittore sembra essere solo strumento.
L'idea che ne ho ricavato è che la letteratura non sia altro che una grande, immensa storia composta da piccoli pezzi tutti collegati tra loro. Se nulla si crea, se tutte le storie sono state raccontate, la letteratura diventa referenziale, una rete di rimandi a questo o a quell'altro libro, un pout pourri che rimescola ogni volta gli stessi ingredienti per dare vita a una forma nuova e contemporaneamente antica, atavica, già conosciuta.
Questa storia universale della letteratura crea dei mondi speculari, paralleli, dove i personaggi prendono vita e la dimensione letteraria prende corpo, manifestandosi al di fuori dello scrittore in modo talmente forte da essere percepita anche da chi non l'ha creata.
Ne è un esempio l'esperienza riportata da Vargas Llosa: grandi critici gli hanno infatti spiegato in modo convincente significati e misteri della trama dei suoi romanzi a cui lui non aveva minimamente pensato. Ecco perché è vitale la critica: vede al di là, in profondità, oltre le intenzioni consce dell'autore stesso.
“Quando si scrive, non solo si proietta la parte conscia di se stessi, ma anche la parte oscura della propria personalità […]. Nel processo di creazione, questi stati che i romantici chiamavano ispirazione e che potrebbero chiamarsi eccitazione o sovraeccitazione, affiorano nel momento di scrivere e lasciano anche una traccia. Questo spiega il perché di come quello che lo scrittore voglia dire non coincide sempre con quello che i lettori capiscono. Ma ciò non invalida la sua interpretazione, semplicemente rende manifesta la cecità che a volte ha lo scrittore di fronte a quello che fa”.
Un processo che riguarda molto la creazione artistica, che per Vargas Llosa si traduce in una riscrittura della prima stesura – in un modo che ricorda Carver –, in una elaborazione “che va prendendo forma per eliminazione”, cioè grazie a un'operazione di sottrazione, di correzione e distruzione di quello che si è già scritto.
Vargas Llosa non precisa se si tratta di una rifinitura esclusivamente formale o inerente anche alla trama, ma parla della storia come di una creatura in divenire, una “nebulosa” che non è mai definita, prima di essere trascritta su carta e aver messo il punto definitivo.
La motivazione di tanta fatica nasce dall'insoddisfazione nei confronti del mondo reale. Se la lettura dà la possibilità di “poter viaggiare nello spazio e nel tempo”, di vivere esperienze alternative, la scrittura si pone a sua volta come il tentativo di modificare storie già lette, cambiandone il finale.
Potrei azzardare, pur non volendo traviare le parole del premio Nobel, che si tratta più inconsciamente di un tentativo di modifica della realtà stessa, che si vuole piegare ai propri desideri. C'è allora, nello scrittore, la tendenza a plasmare non tanto il campo della fantasia, ma, come abbiamo avuto modo di intuire, della stessa realtà. Alla fine, credo, leggiamo e scriviamo libri per cambiare il mondo o, quantomeno, per renderlo un posto migliore: affermazione opinabile e del tutto personale, ma che si avvicina forse al motivo per cui Vargas Llosa parla in termini negativi di cultura light, perché non ci restituisce, cioè, gli strumenti per migliorare noi stessi e quello che ci circonda.
Il rapporto tra scrittura e realtà è però biunivoco: come la prima agisce o cerca di agire sulla seconda, così la seconda influisce in maniera sottile sulla prima, instillandosi nella mente dell'autore e mettendovi radici, per trasformarsi, infine, nel nocciolo di una nuova storia.
Mario Vargas Llosa parla con delicatezza ma con fermezza di punti che da una parte sono condivisibili, perché toccano corde a cui è difficile non essere sensibili, dall'altra sono controversi: mi riferisco alle definizioni di intrattenimento e al ruolo attribuito alla lettura che ne consegue, ma anche alle parole finali “sono convinto che le finzioni cinematografiche non possiedono questo corollario lento, ritardato che possiede la letteratura, nel senso si sensibilizzarmi alle mancanze della realtà e di farmi sentire la mancanza della libertà”. Vargas Llosa crede infatti nel potere della letteratura di rendere liberi: un popolo “contaminato dalle finzioni” è difficile da rendere schiavo, è scontento e anticonformista. Che questa esigenza non possa essere veicolata da altri mezzi è affermazione a cui servirebbe forse qualche altra spiegazione di supporto.
Pur condividendo tutto – poiché ho un punto di vista molto netto su ciò che dovremmo aspettarci dalla letteratura, il cui termine viene accostato all'intrattenimento in modo quasi paradossale –, resta aperta la questione sul diritto democratico di convertire il libro – persino il libro – in un prodotto di consumo: conseguenza indesiderata della diffusa alfabetizzazione, che ha reso il gusto della massa l'indice imperante del mercato editoriale.
Questo post è molto interessante; hai parlato di cose fondamentali soprattutto per noi che abbiamo scelto di fare della letteratura una specie di 'vocazione'. Personalmente credo che la letteratura così come l'arte in genere sia l'espressione di un tempo e in minor misura 'intrattenimento' (se ci pensi, cose che possono essere gradevoli per alcuni possono non esserlo per altri...), a parer mio l'arte è la 'personalità' di un'epoca e non ha altro scopo se non quello di esprimere l'epoca stessa. Ha contribuito a formare questa mia idea la lettura di un testo bellissimo, Storia sociale dell'arte di Hauser, un'analisi bellissima che mette in rapporto gli 'sconvolgimenti' artistici con quelli economici e sociali (il caro Marx docet). Sul libro come prodotto di consumo penso che la virtù stia in mezzo, come in ogni cosa: se è bello che l'editoria si apra a generi diversi e che produca letteratura per tanti diversi target è pur vero che la situazione sta sfuggendo un po' di mano e che si trovano in giro tomi contenenti IL NULLA (con annessi lettori che leggono nulla ma si credono grandi conoscitori della letteratura internazionale..)
RispondiEliminaIl punto non è neanche il fatto che ci siano diversi generi, anzi, è una cosa molto positiva (mentre la diversificazione all'infinito del target è ridicola), anche se dubito che Vargas Llosa la pensi così: per lui qualsiasi cosa non sia destinata a creare un pensiero profondo nel lettore non ha senso (io sono in parte molto d'accordo, ma non tutti la penserebbero così, non senza ragione).
EliminaIl fatto poi che la letteratura sia lo specchio di una società (cosa verissima) non fa che confermarmi quanto male stiamo messi.