Il serpente dorato, Veronica Elisa Conti
Pegasus edizioni
182 pagine, 13.00 euro
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Il serpente dorato è un libro vario, complesso e di difficile collocazione, vagamente permeato di un sapore antico: inizialmente ricorda le atmosfere ovattate e claustrofobiche de Il grande sonno con Humphrey Bogart e Lauren Bacall, poi se ne discosta per sfiorare tematiche e situazioni diverse, arrivando a spaziare dal gotico nella sua vena più esoterica, fino al giallo e al noir. Il lettore si lascia trasportare lentamente dai fotogrammi di questo romanzo violentemente visivo, ricco di immagini vivide e ben scritte, quasi adatte alla sceneggiatura di un film. Il protagonista è in un certo senso il collante che tiene insieme strade e tendenze narrative apparentemente opposte: a tratti è un detective attento, perspicace e oggettivo, a volte solo un attore e un uomo fallito e sognante che si focalizza sulla propria interiorità.
Per la stesura del suo secondo romanzo, l'autrice Veronica Elisa Conti ha senza dubbio attinto dai suoi amori personali, tra cui i noir della Hollywood anni ’40, popolati da donne affascinanti e terribili, e le opere di James Ellroy, così come è dichiarato anche nella breve biografia contenuta nel volume. Non si è però fermata alla semplice creazione di un connubio letterario delle proprie passioni: questo romanzo è infatti dotato di una scrittura particolare che riesce ad essere profonda e coinvolgente al tempo stesso, soprattutto nelle parti dedicate ai pensieri o alle parentesi oniriche.
La storia è ambientata in una misteriosa e inquietante New Orleans degli anni ’40, a metà tra il passato magico e conturbante della cultura nera e un presente chiassoso e indistinto. In questa evocativa città del Sud, tra le sue case bianche e maestose, l'investigatore Darrel Faulkner cerca di risolvere il caso più complicato della sua vita senza impazzire del tutto: il suo mentore è infatti misteriosamente morto mentre era impegnato nelle ricerche di una bambina, sparita dalla sua stanza in circostanze incredibili tra riti oscuri e presenze inspiegabili. Durante le indagini, Faulkner si trova a dover affrontare persone e situazioni intricate e allucinanti che lo spingono a modificare la sua visione della vita, se non addirittura se stesso. Il serpente dorato è in un certo senso un viaggio verso l’inconoscibile: ci avvolge lentamente e inesorabilmente come le spire di un boa e ci conduce, insieme al protagonista, verso una realtà diversa da quella di tutti i giorni. Interessante è anche il riferimento al mistero della camera chiusa, uno dei capisaldi del giallo classico e rompicapo con cui per uno scrittore è sempre difficile ma piacevole confrontarsi.
I personaggi sono credibili e dotati di caratteristiche uniche e peculiari, per quanto a volte appena accennate: l’autrice sembra infatti aver puntato i riflettori soprattutto sul protagonista, gli altri appaiono quasi come contorno. Darrel Faulkner è un investigatore squattrinato e triste, ma anche un aspirante attore con mille ansie e pruriti psicosomatici; più semplicemente è un uomo normale alla ricerca di un cambiamento e soprattutto di passione e fuga dal grigiore dell’esistenza. La cartomante Penny Crane è una controparte tranquilla e dimessa: svolge il suo lavoro senza dialoghi intensi o virtuosismi di alcun tipo. L’altro personaggio che avrebbe forse potuto dare di più ma che sembra in ultima analisi stereotipato è la femme fatale Dalhia Deveraux: intrisa di oscurità e di magia fin dalle prime apparizioni, non stupisce quasi mai per le sue scelte e percorre le pagine del romanzo senza troppi sussulti.
I dialoghi sono sicuramente uno degli ambiti in cui la componente cinematografica emerge di più: abbiamo colloqui semplici, veloci ed essenziali, almeno per quanto riguarda il senso immediato delle parole; pur essendo credibili e verosimili, riescono però raramente ad essere risolutivi, per lo più ci presentano rivelazioni fuorvianti ed enigmatiche. La vera realtà dietro a tutte le apparenze emerge infatti dai pensieri, dalle visioni e dai sogni che di volta in volta affliggono i personaggi e soprattutto il protagonista.
Lo stile ricorda fortemente una sceneggiatura, caratterizzata da frasi brevi e descrizioni e sensazioni che parlano all’anima, raffinate e precise: si sviluppa quindi sulle percezioni visive ed emotive del lettore e sulla sua immaginazione, cercando di spingerle al di là dei limiti conosciuti. Troviamo una buona varietà di registri diversi: si va dai dialoghi immediati ai pensieri dei personaggi, fino ad arrivare ad un vero e proprio delirio onirico. La punteggiatura e la divisione in paragrafi si fanno a tratti più libere, quasi tendono all'ambito della poesia.
In definitiva Il serpente dorato è una buona interpretazione di quello che potrebbe essere un prodotto gotico dei nostri tempi, influenzato dai suoi antenati più illustri e da un linguaggio cinematografico che lo rende scorrevole, piacevole e di facile comprensione visiva. Un discorso a parte è il capitolo finale, vera e propria resa dei conti verbale tra il protagonista e il suo karma, verso una soluzione ultima che mette d'accordo e unisce culture e tradizioni diverse. L’autrice spinge Darrel Faulkner in una situazione forse troppo grande per lui: questi ultimi paragrafi si fanno infatti criptici, filosofici e sicuramente molto ambiziosi; al contempo la trama si chiarisce ulteriormente e ci troviamo alle prese con un finale tra il metafisico e lo spirituale, affine in parte alla ritualità di Stoker e al romanzo fantastico. Personalmente ho gradito questa conclusione così pindarica ed estrema che accompagna il lettore in un mondo alternativo ma sempre con rimandi a quello reale.
Dopo aver ampliato la trama, Veronica Elisa Conti riesce comunque a dare una spiegazione valida alle vicende narrate senza smettere di essere credibile. Uniche pecche di tutto il volume sono una scelta di parole e immagini che risultano a volte troppo potenti e che finiscono per ripiegarsi su se stesse e dilagare in un’inutile ridondanza dal sapore barocco; in alcuni casi, troviamo anche un dislivello eccessivo tra un capitolo e l'altro, come se mancasse un vero e proprio nesso logico: lo stile onirico, poetico e surreale è un elemento senza dubbio positivo, ma si ha l'impressione che qua e là sia troppo spinto e manchi qualche spiegazione in più, che permetta al lettore di seguire effettivamente la narrazione e godere a pieno di quelle che sono le buone premesse dell'autrice. D’altro canto questa marcata brevità deriva anche dall’impostazione generale di un romanzo che potrebbe essere descritto come una fiaba gotica e che quindi, come ogni fiaba, ha bisogno di veloci pennellate e non di lunghi e dettagliati paragrafi. Nonostante questi problemi, Il serpente dorato resta comunque un titolo piacevole e interessante che fa ben sperare per il futuro dell'autrice.
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