Reduce dalla lettura del best-seller di Azar Nafisi, Leggere Lolita a Teheran, interrompo le ferie dal blog. L'esigenza di scrivere, che mi procura tanta sofferenza – io, troppo perfezionista, troppo vigile con la forma – talvolta mi conduce anche a buttarmi di getto sul foglio.
Questo pezzo avrà, probabilmente, un taglio personale, perché l'argomento non può non toccare corde intime, scivolare nel privato, mettere in discussione scelte di vita, modi di essere, ambizioni sul futuro – sempre troppo ardite, in un momento storico in cui il futuro non potrebbe essere più buio e incerto di così.
Ed è d'altronde necessario: come affermarsi altrimenti in una società plutocratica, classista e ignorante, sprezzante della cultura del suo Paese? A noi, poveri laureati in lettere, hanno lasciato solo la penna, un'alzata di scudi – sappiamo perfettamente inutile – contro la fredda e nauseante posizione dei tuttologi e dei populisti che imperversano, a frotte, nel Paese.
Ogni argomentazione che mi viene in mente contro l'articolo di Stefano Feltri è così scontata da aver bisogno di essere ribadita con forza: perché se Feltri, ahinoi, non giunge alle stesse conclusioni con la sola forza della sua laurea bocconiana, diventa evidente che quelle migliaia di laureati in lettere possano, nonostante tutto, prendersi il lusso di spiegare concetti tanto elementari – nella speranza che, malgrado il corso di studi, non tutti i laureati in economia escano dalla propria facoltà ugualmente ignoranti, e volendo ribadire come la cultura non possa essere settoriale, ma anzi completa di elementi scientifici e umanistici.
Partendo dal presupposto che le lauree in Lettere e Filosofia siano perfettamente inutili dal punto di vista economico, Stefano Feltri nega l'esigenza di una cultura umanista che si perpetui nel tempo e non si restringa a un gruppo elitario di individui, quelli abbienti, cioè, che possono permettersi la “vita da bohemien” da lui citata. La “convenienza” del percorso di studi diventa né più né meno che una questione democratica: non relativa, voglio dire, al pari diritto allo studio, alle uguali possibilità lavorative e all'assenza di discriminazioni, quanto al fatto che con la scelta del corso di laurea si mettono in gioco fattori, incredibile a dirsi, che riguardano la società e, in senso più largo, la democrazia.
La veridicità di questa affermazione è dimostrata, in antitesi, dall'agghiacciante insinuazione che sarebbe preferibile chiudere alcune facoltà umanistiche, che producono disoccupati, e aprire più facoltà scientifiche: è probabile che Aldous Huxley, che sicuramente il giornalista non ha letto, si stia rivoltando nella tomba. Se c'è infatti una nicchia di resistenza in questo Paese, in tutti i Paesi, non sono gli economisti a rappresentarla: sono quegli umanisti che non si arrendono all'inettitudine dell'opinione pubblica, che continuano a farsi domande e a sviscerare i problemi da vari punti di vista – perché è questo che ci hanno insegnato: che la verità talvolta non è univoca, che la realtà è troppo sfaccettata per essere contenuta in un piccolo spazio di pensiero, che quando si crede di avere una certezza bisogna allora cominciare a smontarla pezzo per pezzo. Sono coloro che hanno imparato dalla letteratura che la “problematizzazione” è l'arma del libero pensiero, e che il libero pensiero è alla base della democrazia.
Il pensiero di Feltri invece, come è facile capire, si fonda su un sistema binario: se non è A, è B, e se B è più conveniente di A, la scelta cade su A. Nel fantastico mondo di Feltri la felicità si calcola in euro, e la sanità della società dalla sinistra bontà del cittadino “lavoratore”. Una definizione che ricorda – mi si perdonerà l'ulteriore citazione, ma l'ignoranza di certe affermazioni è stata vaticinata e ampiamente sminuzzata da innumerevoli autori – il cavallo Boxer de La fattoria degli animali di Orwell. La società cresce unicamente in base alla sua produzione – magari fondata su un sistema stakanovista – o progredisce anche grazie al dibattito civile?
Ci siamo accorti che il dibattito civile è fomentato da populisti, opinionisti di bassa cultura, gente comune che si erge a esperta e che, come è ovvio che sia, è incapace di mettere in discussione le proprie becere affermazioni, andando al di là del proprio naso. Spesso anche gli stessi “esperti del settore” (Feltri parla di giuristi e sociologi, ma di scrittori non ne ho mai visti) si lasciano andare ad esternazioni da talk show, che si qualificano già solo con questa definizione. Siamo quindi sicuri che non abbiamo bisogno, anzi, di più laureati nelle materie umanistiche?
Il punto è che questi giovani – e qui sta il nodo della questione – scatenano un moto di repulsione e rabbia perché non producono per la società ritorni materiali, almeno nell'ottica cieca e ottusa di chi non capisce che in una nazione come l'Italia la cultura dovrebbe essere la prima fonte di reddito. Anziché polemizzare sui giovani laureati in Lettere, il ruolo dei giornalisti dovrebbe essere quello di sollevare l'opinione pubblica sui motivi per cui ciò non accade, spingendo affinché le lauree in ambito umanistico – visto che ne abbiamo la possibilità – vengano rivalutate e producano i posti di lavoro che spettano loro.
Affermare che i laureati in Lettere sono liberi di prendere la strada che vogliono, ma che poi non devono lamentarsi per la disoccupazione o il basso stipendio equivale a dire, in questa circostanza, che le donne sono libere di vestirsi come vogliono, ma che non devono lamentarsi se poi vengono stuprate.
La libertà di realizzarsi come individui e di seguire le proprie inclinazioni è tutelata costituzionalmente, così come quella di esprimersi attraverso l'abbigliamento. Non possono essere le deprecabili circostanze esterne a ledere questo diritto, soprattutto dal momento in cui è lo Stato stesso ad aver creato i presupposti (grazie alla riduzione dei fondi e alla noncuranza per i siti archeologici e culturali) del dislivello occupazionale delle lauree umanistiche.
Ma, per tornare a un altro punto focale, la letteratura, la storia, la filosofia costringono a metterci in discussione (quando è scontato e allo stesso tempo sottovalutato questo concetto?). Sono ambiti scomodi (a noi stessi, al potere e a chi tenta di manipolare, riuscendoci felicemente, l'opinione pubblica grazie alla mistificazione dell'informazione e alla nuova labilità della cronaca), senza la quale, però, non esisterebbero nemmeno termini come “libertà”, “espressione personale”, “democrazia”.
Incitare i ragazzi a non intraprendere in massa gli studi umanistici, a chiudere addirittura le facoltà, corrisponde a un suicidio sociale, nonché all'auspicio di un esercito di piccoli Stefano Feltri che strizzano l'occhio all' “utile” a costo della semplificazione del pensiero, appellandosi ai luoghi comuni e alla volgarità del giornalismo estemporaneo. Pur essendo scontato che un laureato in economia non abbia necessariamente questa inclinazione, dovendo giocare al gioco degli stereotipi di Feltri dobbiamo ammettere che il suo esempio non fa ben sperare.
Ignorare come queste materie cambino e abbiano cambiato non solo noi, causando quelle piccole rivoluzioni che ben mi vengono in mente pensando al libro della Nafisi, ma anche il corso della storia, significa ridurre ogni aspetto della nostra vita a un principio materialistico che è totalmente irreale – come ci insegna Il grande Gatsby di Fitzgerald: la felicità del denaro non esiste. Ma non pretendo che l'economista Feltri lo comprenda.