lunedì 12 dicembre 2016
Intervista a Majgull Axelsson, autrice di "Io non mi chiamo Miriam"
Il 15 novembre abbiamo partecipato a Milano ad un incontro speciale con la scrittrice svedese Majgull Axelsson, autrice di Io non mi chiamo Miriam. L'evento si è svolto nella sede di Iperborea, in via Palestro: un gruppo di blogger intorno a un tavolo, librerie alle pareti e un'atmosfera calda e stimolante. Tra curiosità e domande via via più interessanti, l'autrice ci ha mostrato aspetti e risvolti sconosciuti del suo libro e del modo di essere narratrice: scopriamo che ha iniziato la carriera come giornalista e lo è stata per circa venticinque anni. Solo dopo la stesura di Rosario is dead, un romanzo-documentario crudele e disincantato sulla prostituzione infantile, ha deciso di diventare scrittrice e raccontare storie, arrivando con Strega d'aprile a vincere un prestigioso premio letterario in Svezia. Parlando con lei sembra quasi di avere davanti uno storico o un esperto dei campi di sterminio nazisti: sa ogni cosa e risponde esaurientemente a tutto, mantenendo sempre un rapporto strettissimo con ricostruzioni precise e cronache il più possibile dettagliate. Stupiscono soprattutto il suo spirito critico e il modo serio e obiettivo con cui si è avvicinata al popolo rom, libera da ogni pregiudizio e spinta da una forte volontà di documentare il lettore e spazzare via ogni preconcetto. In particolare ha varcato quel sottile ponte che collega il giornalista allo scrittore, informandoci a dovere su quanto accaduto ad Auschwitz e al contempo regalandoci pagine di sensazioni forti e realistiche. Majgull Axelsson è riuscita in questo modo a unire il reportage e la cronaca di un evento storico alla letteratura intimista e personale: il lettore vede e sente tramite uno sguardo strano, che potremmo definire oggettivo/emotivo. In definitiva la Miriam che ha in mente l'autrice è la stessa che avevamo compreso dalle pagine del romanzo: una donna perfetta e discreta che non mostra mai rabbia o irritazione. Questo è il prezzo che deve pagare per conservare la sua bella vita e nascondere la propria etnia.
È sempre affascinante penetrare lo spazio creativo e capire da dove vengano quelle intuizioni speciali che si trasformano in libri. Anche Io non mi chiamo Miriam nasce, come spesso accade, da un incontro fortuito con un'ispirazione improvvisa. Ci può raccontare com'è andata realmente e svelare il rapporto che scorre tra verità e romanzo?
Pensavo semplicemente di scrivere un libro sui tumulti che si erano svolti a Jönköping nel 1948. Gli abitanti della città manifestavano contro un gruppo di stagnini rom che vivevano nel ghetto e che si erano mescolati agli svedesi: i toni diventarono presto piuttosto violenti e volgari e numerose persone vennero quasi poste sotto assedio per settimane. Nel 2011/2012 sono andata a visitare il quartiere in cui erano avvenute le dimostrazioni. Mi trovavo vicino ad una bella casa con a fianco una chiesa e subito ho immaginato Miriam: sola, spaventata, di ritorno dal lager dove era quasi morta. Di colpo sapevo anche cosa le era accaduto durante i tumulti. Solo in seguito sono andata ad Auschwitz per documentarmi: per esempio in un negozio di Birkenau molto fornito ho trovato alcuni volumi veramente completi. Non sapremo mai quanti siano stati i rom morti nei lager, purtroppo non erano registrati: potrebbero essere cinquecentomila come un milione, provenienti soprattutto da Polonia, Ungheria e Germania.
Come sono stati trattati i rom e gli altri profughi accolti in Svezia alla fine della guerra? Questo è sicuramente un tema molto attuale, visto l'incredibile afflusso di immigrati in Europa.
Sicuramente meglio di come vengono trattati oggi. Erano alloggiati nelle scuole e nelle sale dei concerti, la gente del luogo donava loro cibo, soprattutto panini e frutta, vestiti caldi, piumoni. Facevano a gara ad ospitarli. Folke Bernadotte, politico e membro della famiglia reale (era nipote del re Gustavo V di Svezia), riuscì a negoziare con Himmler la liberazione dei prigionieri politici. La Croce Rossa svedese doveva portare in salvo solo nordici, svedesi e norvegesi, alla fine salvò anche persone di altre etnie. Cercarono di fare del loro meglio.
Nel suo libro i rom vengono spesso chiamati “tattare”. Da dove deriva questo termine?
I tattare in Germania sono i sinti. Questa parola è stata coniata durante i conflitti russo-svedesi dei secoli XVII/XVIII. Al ritorno dal fronte i soldati avevano portato in patria mogli e figli appartenenti ad altre etnie: per questo non erano più accettati dalle comunità di cui un tempo facevano parte. Combattendo coi russi erano venuti a contatto con il nome “tartari”, una minoranza presente in Russia. Anche se non avevano niente a che vedere con questo popolo vennero chiamati “tattare”, ovvero la deformazione della parola “tartari”, il modo in cui gli svedesi la pronunciavano.
L'aggettivo “tartaro” in russo è “tatarskij”. Questo termine ricorre spesso per esempio in molte opere di Tolstoj. Non ci stupiamo quindi troppo della trasformazione svedese in “tattare”. Gli stessi tartari sono detti anche tatari.
Com'è oggi la situazione dei rom in Svezia?
Attualmente esistono delle vere e proprie organizzazioni che si occupano di difendere queste minoranze. Gli abitanti di Jönköping si vergognano tuttora moltissimo dei tumulti del 1948. La loro è una città da sempre fortemente religiosa, con il più alto numero di chiese della Svezia. Di recente gruppi di neonazisti avevano deciso di darsi appuntamento proprio lì per le dimostrazioni del primo maggio. Non appena si sparse la voce, le campane della città iniziarono a suonare per dare l'allarme e i cittadini scesero in piazza. Alla fine i neonazisti risultarono pochissimi, circa una ventina, mentre le persone tantissime: si svolse quindi una serena e consapevole commemorazione dei fatti del '48. Nel romanzo la famiglia regala a Miriam un braccialetto di fattura zingara che è poi in un certo senso la scintilla che spinge la protagonista a rivelare la sua vera identità: nelle mie intenzioni era un oggetto creato da Rosa Taikon, nota artigiana di origini rom che si è sempre battuta per i diritti del suo popolo.
Le vicissitudini della protagonista sembrano reali e veramente vissute. Non c'è quasi differenza tra Io non mi chiamo Miriam e il romanzo di un reduce. Come ha fatto a rendere così bene a livello emotivo e in modo così realistico esperienze che non ha vissuto?
Il segreto è leggere leggere leggere. Io in particolare leggo moltissimo da quando avevo dodici anni e conosco bene sia Remarque che Primo Levi, i due scrittori che mi hanno aiutato di più nella stesura di questo libro. Sicuramente questo romanzo ha preteso molto da me: ho sognato per circa due anni il lager, in un certo senso ero diventata proprio Miriam. Tra l'altro lei vive nella città dove sono nata! Scrivevo principalmente di notte e ho avuto incubi terribili per circa due anni. Prima di addormentarmi ogni sera dicevo a mio marito: “È ora di tornare al campo!”. Vi lascio immaginare il sollievo quando finalmente l'ho finito.
Potremmo aggiungere una riflessione alla risposta di Majgull Axelsson. È probabilmente anche merito del suo passato da giornalista se il personaggio di Miriam è così finemente costruito e verosimile: vive letteralmente delle miriadi di informazioni che l'autrice ha scoperto leggendo o semplicemente camminando nei teatri dell'Olocausto. Per ogni inchiesta o articolo sono infatti fondamentali un lavoro di ricerca preciso e una buona capacità di investigazione. Due qualità che sicuramente alla Axelsson non mancano.
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